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Quivi, veramente, l’aria che vi si respira non è perfettissima e per tal cagione poca gente vi invecchia o lungamente vi campa... Così, a metà Settecento, il vicario di Murlo Bernardo Giuseppe Pandini stigmatizzava la Villa della Befa, e poi, di seguito, come a sottolineare l’asprezza di un luogo tanto malsano, ricordava che lì sono relegati a confino i contumaci della Giurisdizione di Vescovado (1).
Una ventina d’anni più tardi, anche il vicario Marcello Prosperini in
una relazione sul Vescovado, accennava a Pompana e alla Befa come a Ville situate in aria insalubre, perché, esposte ai venti di scirocco e mezzogiorno solamente, gli scorre appresso il fiume Ombrone e sono circondate da fossi non perenni (2).
L’immagine
piuttosto desolante della Befa resa dai due vicari, non doveva
discostarsi molto da quella reale, se delle circa cinquecento persone
che più anticamente vi abitavano, compresi Montepertuso, Pompana e
dintorni, solamente poco sopra le centocinquanta se ne contavano
all’epoca. Meno male che la zona un pregio ce l’aveva: era celebre pel suo vino, scriveva sempre il Pandini, così come quello della vicina Pompana era squisitissimo.
Oggigiorno,
di abitanti in loco se ne contano parecchi meno di allora, ma non per
questo, quel minuscolo agglomerato di edifici si manifesta come
riferito in passato dai vicari di Murlo. Appena vi si giunge, semmai,
vuoi per la conformazione del villaggio e il suo aspetto, vuoi per la
sua ubicazione, pare subito di percepire l’aura lenta e sonnacchiosa
che immancabilmente pervade ogni remoto avamposto di frontiera…
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Sulla
facciata del fabbricato ristrutturato che, passato il cimitero, si
trova sulla destra, all’inizio di una delle due file parallele di
vecchie case che compongono l’abitato, si può scorgere, murata
nell’incavo di una finestrella cieca, un’antica targa smaltata, di
modesta fattura, ma singolare per la composizione iconografica,
palesemente correlata alla tradizione religiosa senese e ai suoi culti.
La targa, di forma rettangolare, in terracotta a bassorilievo rivestita
di maiolica policroma, raffigura in alto, il busto della Madonna di
Provenzano su nubi profilate d’azzurro, dalle quali sbucano le faccine
alate di due cherubini. Sotto, inginocchiati e rivolti verso la
Madonna: a sinistra, San Bernardino da Siena, vestito del saio e
cordone francescani, con in mano il sole raggiante contenente il
monogramma del nome di Gesù (IHS), (nella targa si intravede un piccolo
disco giallo); a destra, Santa Caterina da Siena con l’abito di
terziaria domenicana ed in mano il Crocifisso. Le figure posano sopra
un fondo di smalto biancastro, racchiuso da una semplice cornice a
rilievo giallo-chiaro con tracce azzurrine. Il culto senese per la
Madonna di Provenzano, con la sua leggendaria origine, è cosa ben nota,
che si tramanda sin dalla fine del Cinquecento. Così, la figura di San
Bernardino è strettamente legata a Siena, città dove compì i primi
studi e maturò quelle convinzioni religiose che lo portarono in
seguito, a Siena stessa e nell’Italia del Quattrocento, ad una
instancabile attività di predicatore (il suo monogramma si trova sopra
le porte e sulle facciate di numerosi edifici in Siena). La devozione
dei Senesi, poi, verso Santa Caterina, non
abbisogna di conferme ed è oltremodo attestata dalla vastissima
iconografia della santa prodotta nella città in cui nacque e visse nel
corso del XIV secolo. Si può dire, che in questo semplice oggetto
“rinvenuto” alla Befa, sia raccolta l’essenza della religiosità senese,
condensata nelle immagini di tre delle sue figure fra le più celebrate. La targa si inserisce in quella vasta produzione di mattonelle
smaltate e dipinte, a soggetto sacro, che larghissima diffusione ebbero
nel senese, in particolare nel corso del XVIII secolo; produzione da
mettere in relazione con l’esistenza nel corso del tempo di numerose e
più o meno famose manifatture ceramiche in questa area, come a Siena,
ad Asciano, a San Quirico d’Orcia, a Montepulciano e in altri centri
minori. Le immagini sacre della targa devozionale in genere, non
erano quasi mai creazione originale dell’artigiano, ma era prassi
comune, nella bottega ceramica, ricopiare sui vari manufatti, scene e
figure tratte da incisioni a stampa. La scelta cadeva, usualmente,
sulle immagini delle devozioni locali, cosicché sulle targhe,
mattonelle, placche o formelle del senese, possiamo vedere largamente
rappresentati la Madonna di Provenzano, San Bernardino da Siena e Santa
Caterina, talvolta riuniti insieme, spesso da soli (la Madonna di
Provenzano frequentemente anche modellata a tutto tondo) e, più di
rado, associati ad altre figure di santi.
Nel nostro
caso, la targa della Befa può ricondursi ad una piccola incisione
contenuta in un libretto, stampato a Siena nel 1775 in occasione della
celebrazione della Domenica in Albis di quell’anno, quando venne
portata in processione per la città la Madonna di Provenzano (3). Nella
formella è riprodotta esattamente la scena dell’incisione, ma sono
tralasciati i particolari, come la mitra e il pastorale ai piedi di San
Bernardino - a significare i tre vescovadi a lui offerti ma poi
rifiutati - il giglio, la corona di spine e le stigmate di Santa
Caterina - suoi usuali attributi
- nonché il paesaggio, appena accennato, sullo sfondo. Queste volute
omissioni nella trascrizione pittorica della targa, così come la sua
esecuzione a calco, si conciliavano allora, con l’esigenza di
realizzare, velocemente ed in quantità, un prodotto popolare, a costo
contenuto e di notevole smercio sia in città che nei paesi del contado.
Un prodotto da vendere, oltre che nelle botteghe, soprattutto nei
mercati, destinato ad una clientela di estrazione sociale certo non
elevata, ma sicuramente devota e comunque dotata di una seppur minima
disponibilità economica, fatta di artigiani, di
piccoli commercianti, di operai e contadini, di modesti proprietari
terrieri, di semplici prelati o curati di campagna e così via. Uno di
loro doveva essere il proprietario di quella casa, situata all’ingresso
della Befa, sulla cui facciata murò la targa, a cavallo tra Sette e
Ottocento, intervallo di tempo al quale si può ascrivere la sua
produzione, come suggerito sia dall’incisione, sia dalla fattura, sia
dalla comparazione con oggetti analoghi datati. Venne acquistata, probabilmente, in una bottega di vasai
o in un mercato a Siena oppure in quello più vicino della piazza
dell’Antica o di Buonconvento, dato che il mercato che si teneva
anticamente alla Befa era stato ormai soppresso. Dal Catasto
Leopoldino del 1821, si rileva che l’edificio su cui è presente la
targa, è all’epoca adibito ad abitazione - fra l’altro, la più grande
delle otto che compongono il borgo - ed è proprietà dei Batignani (4).
Questi posseggono anche un’altra casa alla Befa e terre vitate ed altre
ad uso lavorativo o di pastura nei dintorni, sulle quali pagano le
tasse sin dal 1791. Alla famiglia Batignani, che non risiedeva alla
Befa ma affidava case e terre da lavorare a mezzadri o pigionali,
appartenevano in quello scorcio di fine Settecento, don Bartolomeo e
don Giuseppe, due sacerdoti, all’uno o all’altro dei quali si può ipoteticamente attribuire la committenza della targa in questione (5). Al
di là della motivazione puramente devozionale che indusse ad apporre la
targa su quella casa, si può rilevare, in generale, che la sua
collocazione è tipica e legata a quella che era ritenuta la sua
funzione preminente, cioè quella protettiva nei confronti del
corrispondente spazio abitativo e soprattutto delle persone che lo
occupavano. La devozione, quindi, verso l’immagine sacra della targa -
che poteva talvolta trovarsi anche all’interno della casa, come sopra
il focolare, nell’androne al piano terra o sul pianerottolo dopo la
prima rampa di scale - garantiva la tutela di una qualche entità
soprannaturale verso la famiglia
e la sua abitazione. Il fatto poi di trovarsi murata su una parete
esterna e per di più dalla parte dell’unica strada del borgo, ne
ampliava la dimensione strettamente privata, per ricomprenderla in una
più ampia dal significato comunitativo, pubblico: la sua protezione
andava così ad abbracciare chiunque transitasse lì davanti, magari
fermandosi un attimo per una breve preghiera o anche solo per farsi il segno di croce. Una
benedizione globale in sostanza, rivolta a tutti i componenti la
piccola comunità che, per forza di cose, dovevano passarle davanti: chi
per recarsi ai lavori agricoli, chi per andare nei mercati vicini a
vendere o a comprare, chi per spostarsi verso i poderi limitrofi, chi
per raggiungere per motivi vari Siena, Murlo, Monteroni o Buonconvento.
Un manufatto semplice, dunque, ma con una storia dietro le spalle, che
mette in evidenza - assieme a tutti gli altri che permangono sul
territorio nonostante i lavori di riassetto urbano o i furti per
alimentare il mercato antiquario - due particolari aspetti
delle vicende locali: da un lato sono infatti espressione di un
peculiare ramo dell’antica arte ceramica sviluppatasi nel comprensorio
senese, mentre dall’altro rappresentano una delle più genuine
manifestazioni della fede popolare nei tempi passati. Quanto basta per
motivare l’obbligo, che ricade su noi posteri, al rispetto, alla tutela
e alla conservazione di tali testimonianze.
Note
(1) Vedi: Una Signoria nella Toscana moderna. Il Vescovado di Murlo (Siena) nelle carte del secolo XVIII, di M.Filippone, G.B.Guasconi, S.Pucci, Siena 1999, p.121.
(2) Ibidem, p.306.
(3) Il libretto, stampato a Siena nel 1775 presso Vincenzo Pazzini Carli e figli, è intitolato: Ragguaglio della solenne processione fatta in Siena nella Domenica in Albis l’anno del Santo Giubileo MDCCLXXV…
Questo fu edito in occasione della tradizionale cerimonia senese della
Domenica in Albis di quell’anno, quando venne portata in processione ed
esposta in Duomo la Madonna di Provenzano. Sotto l’incisione, eseguita
da Agostino Costa, è riportata la scritta: Vero
ritratto di Maria SS. che si venera in Siena nell’In.e Collegiata di
Provenzano portata a processione la Domenica in Albis l’an. del
Giubileo 1775 (A. Costa).
(4) Catasto Leopoldino, Comunità di Murlo, sezione I detta di Pompana, part.164.
(5)
Don Giuseppe Batignani da Buonconvento era diventato parroco di
S.Andrea ad Abbadia Ardenga (giuspatronato del Vescovo di Montalcino)
il 18 marzo 1788. Aveva rinunziato il 28 febbraio 1798 ed era andato
pievano a Buonconvento. Muore il 31 gennaio 1828.
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