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Riprendiamo
l’argomento del quale ci siamo occupati nello scorso numero,
riguardante la struttura organizzativa territoriale, in particolare la
Comunità Montana della Val di Merse, che sembrava sul punto di
essere soppressa con l’ultima “Finanziaria”, invece
tutto è stato rinviato a successive verifiche e valutazioni a
livello della Regione Toscana. Giudichiamo corretto l’accaduto
perché la decisione ci sembrava affrettata e in ogni modo poco
meditata, di là dal fatto che, come previsto, non si sono prese
reali decisioni per intervenire sulla spesa pubblica improduttiva.
Della riduzione della spesa pubblica se ne parla in continuazione: come
significativamente abbattere il nostro gigantesco debito pubblico e
quindi ridurre il costo degli interessi, come riqualificarla per
fornire servizi ai cittadini in modo più efficace e mirato ai
bisogni. Ma meno si agisce. Strettamente collegate alla spesa pubblica
sono le riforme, altro argomento in “voga” da quasi
trent’anni. Ci sono delle riforme che non costano nulla e che
potrebbero liberare risorse veramente importanti da ridistribuire nelle
direzioni più opportune. A mio modo di vedere le aree
d’intervento per riforme di questo tipo sono “i
tempi” e la struttura organizzativa dello Stato. I tempi
decisionali e di realizzazione, nel settore pubblico, nel nostro paese
sono assolutamente anacronistici: i tempi lunghissimi si traducono in
sovracosti per la collettività. Si potrebbero fare numerosi
esempi, lontani e molto vicini a noi. In anni in cui la velocità
di trasformazione della società è incredibilmente rapida,
ci affidiamo ancora a procedure e norme che a chiamarle medioevali si
offendono gli “amministratori” dell’epoca. Per
cambiare velocità basta cambiare le leggi e le procedure: costo
zero, risparmi enormi, vantaggi per il cittadino inimmaginabili.
La struttura organizzativa dello stato, in particolare quella
territoriale, così com’è rappresenta un livello di
costi ormai insostenibile, con un funzionamento lento e scarsamente
efficace. Come si diceva nell’ultimo numero, le soluzioni
esistono a livello legislativo, ma sono poco praticate: tutte hanno una
loro validità e sono da valutarsi secondo le diverse esigenze
locali. Si tratti di Comunità Montana, Circondario, Unione e/o
Fusione di comuni, l’obiettivo rimane sempre quello di arrivare
ad accorpamenti logici, a ridurre il numero dei comuni piccoli per
creare delle strutture efficienti per costi ed efficaci per i cittadini.
In Italia esistono oltre 5.800 comuni (su un totale di 8.100) che non
raggiungono i 5.000 abitanti, con una popolazione media di 1.700/1.800
cittadini, sparsi dal Nord al Sud, ma con prevalenza nel settentrione
d’Italia.
Molti comuni cercano di diventare “grandi” con la
costruzione di case e quindi l’aumento della popolazione:
è comprensibile essendo gli oneri derivanti dall’edilizia
e il numero degli abitanti le più importanti fonti di
finanziamento comunale (la maggior parte dei trasferimenti statali
è legata a questo parametro). Questo è fatto anche tra
comuni limitrofi, una specie di forte concorrenza che finisce
normalmente per trascurare una visione e gestione complessivo del
territorio e rischia, a mio avviso, di generare tra non molto una
potenziale “bolla” edilizia, non essendo prevedibile una
domanda eternamente in crescita.
La legge sui “piccoli comuni”, non arrivata
all’approvazione nella passata legislatura, considera molti
aspetti specifici delle situazioni di questi territori, prevede
interventi regolatori e previdenze economiche. Forse - essendo una
legge dello stato, che dovrebbero essere leggi quadro- entra in
eccessivi dettagli e casistiche, che potrebbero fare parte di
successivi decisioni a livello regionale. Trascura, soprattutto, a mio
avviso, l’aspetto organizzativo ed economico, non prevedendo, ad
esempio, che qualsiasi tipo di compensazione ai disagi e/o i
trasferimenti di risorse finanziarie, debbano essere subordinati ad
interventi sui costi con l’inserimento del “piccolo
comune” in una struttura più grande, sia essa una
Comunità, un Circondario, un’Unione di comuni o
addirittura ad una Fusione tra comuni piccolissimi che resterebbero al
di sotto della soglia di 5.000 abitanti. Senza vincoli di questo
genere, questa legge genererebbe solo incremento di spesa pubblica,
magari meglio destinata che in altri casi, ma sempre incremento, senza
un corrispettivo di natura organizzativa, in termini d’efficienza
ed efficacia. Peraltro, come già detto, esistono da numerosi
anni leggi apposite, nate per favorire la creazione di strutture
organizzative più grandi: ma sono scarsamente utilizzate. Tutti
sanno delle Comunità Montane, meno delle Unione di Comuni e
Fusione di Comuni.
L’Unione di Comuni (istituita con la legge 142/1990 e aggiornata
nel 2000) costituisce una forma associativa tra due o più comuni
confinanti, volta a creare delle economie di scala attraverso
l’accorpamento di funzioni e servizi, mantenendo le singole
identità comunali. Polizia municipale, nettezza urbana, ufficio
tecnico, servizi sociali, trasporti e così via possono essere
accentrati nell’Unione Comunale al fine di ridurre i costi
pro-capite e ridurre pro-quota le spese fisse di gestione e di
migliorarne la qualità ed efficacia. La Fusione di Comuni, come
dice la parola, significa la creazione di una nuova entità
amministrativa più grande nella quale confluiscono due o
più comuni confinanti; nel nuovo comune sono concentrati tutti i
poteri e servizi.
E’ inoltre interessante conoscere che lo Stato, per favorire
tutte le tipologie di concentrazione/accorpamento dei piccoli comuni,
riconferma, anche con l’ultima legge Finanziaria, maggiori
risorse economiche, trasferimenti aggiuntivi pari al 50% dei risparmi
di spesa derivanti dall’accorpamento e la non applicazione per un
triennio delle disposizioni sul patto di stabilità, che
vincolano la spesa comunale. In sostanza lo Stato penalizza i comuni
che scelgono di rimanere “piccoli comuni”, per cui mi
sfuggono le ragioni per le quali solo pochi “piccoli
comuni” italiani accedono alle nuove strutture organizzative, che
consentirebbero maggiore efficienza (minori costi di spesa pubblica
complessiva) e migliore efficacia nel rispondere ai bisogni dei
cittadini.
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