MURLOCULTURA n. 1/2010 | ||
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Carrellata sui mestieri in mutazione di Luciano Scali Diciottesima puntata |
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A questo punto credo che sarebbe utile fare
accenno ad un fattore molto importante che riguarda l’argomento che
ormai trattiamo da tanto tempo: la tecnologia del mestiere stesso. Debbo dire di avere avuto
il privilegio di frequentare in età giovanile “mostri sacri” dell’arte
muraria, come certamente verrebbero chiamati oggi se fossero ancora
vivi alcuni muratori del tempo passato, e
l’averne osservato i metodi di lavoro mi ha giovato
molto nella mia vita di cantiere.
Mi riferisco alla loro facilità di adattamento di
fronte alle situazioni più impreviste con il ricorso ad autentiche
“birbate” suggerite forse da esperienze lontane fornite loro da gente
passata e dalla continua applicazione del mestiere. L’esperienza si acquisisce meglio nella precarietà
quando fanno difetto le risorse e la sopravvivenza nell’arte scelta
viene affidata principalmente all’ingegno.
Vista l’arte muraria da vicino non si può dire che per praticarla anche con una certa serietà ed efficacia, si debba fare ricorso a chissà quali attrezzature. Gli “arnesi” indispensabili sono pochi e, la maggior parte di questi possono stare benissimo in un secchio o in una “paiola”. A questi se ne possono aggiungere “via, via” altri addirittura fabbricandoli quando occorrano. Di quelli che vado ad elencare non se ne può fare a meno. “ Il doppio metro , la livella, la mestola, il martello, uno scalpello e una subbia, spago, chiodi, una paiola o un secchio, un pennello, un segaccio e un accettino o un’ascia” e poi: “ un regolo e una pala.” Con questi attrezzi essenziali il vero muratore era in condizione di fare miracoli. In questo breve accenno ad un passato ormai remoto è mia intenzione evidenziare qualcuno degli “escamotage” ai quali facevano ricorso i muratori che disponevano dell’attrezzatura sopra elencata usando però in maggior misura il proprio ingegno. In primo luogo era necessario dotarsi delle cose di cui faceva difetto costruendosele, magari di sana pianta come “il filo a piombo”. Regola avrebbe voluto che fosse stato fabbricato usando “lo sverzino” ovverosia uno spago sottile formato da più refoli distinti, molto resistente e restio a spelarsi, che all’estremità di uno dei capi portasse un peso equilibrato e appuntito formato di solito da un cono di metallo tornito con un occhiello dove il filo veniva fissato. In difetto di un oggetto simile si poteva far ricorso all’occorrenza, ad uno spezzone di spago comune con un pezzo di mattone legato in fondo oppure un pezzo di ferro non troppo ingombrante. Un oggetto molto più rozzo ma essenziale col quale riuscire benissimo a verificare la verticalità di un manufatto sia che si trattasse di una parete o di una cantonata. A questo punto passava al muratore il compito di fare il resto, ossia essere in grado di “traguardare” il manufatto nella maniera giusta valutando il “parallelismo” (s) tra l’oggetto e il filo senza sovrapporre questi all’oggetto stesso. Se la situazione si presentava come nella figura 1 la verticalità poteva ritenersi corretta, altrimenti come nei casi 2 e 3 si sarebbe detto che “strapiomba” oppure “appoggia”. In ambo i casi il manufatto doveva essere corretto. Fig. 1
Questo esempio
per dimostrare come uno strumento primitivo “fatto
in casa” possa assolvere con efficacia il compito
assegnatogli. “In un triangolo rettangolo, il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti” che può anche
leggersi che la lunghezza dell’ipotenusa è uguale alla radice quadrata
della somma dei valori delle lunghezze al quadrato dei cateti. Fig. 2 Il muratore di altri tempi com’era mio padre, non
sapeva chi fosse Pitagora né quando e dove fosse esistito, ma sapeva
benissimo fabbricarsi una squadra col procedimento dei tre pezzetti di
legno di quella lunghezza. (continua)
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