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Ritengo che l’evoluzione delle strutture organizzative di base del
territorio, nel senso descritto nei precedenti articoli, finirà per
essere molto più veloce di quanto molti cittadini si immaginino. Non
esistono sostanziali differenze di fondo, voglio dire per quanto
riguarda l’obiettivo finale, tra lo schieramento attualmente al
governo e la sua possibile alternativa. Lo stesso “fil rouge”
accomuna le leggi approvate sull’argomento negli ultimi dieci anni
dai vari governi. Le differenze riguardano le modalità, i tempi, i
tecnicismi, le tipicamente italiane contrapposizioni politiche del
momento; sembra inverosimile che, avendo un obiettivo comune, non si
riesca a trovare un gruppo di volenterosi “eletti” (sia a livello
nazionale che regionale) che affronti in modo razionale il problema
di queste struttura, soprattutto ora che le leggi sul federalismo
sono progressivamente in via di approvazione. Il rischio è di avere
una nuova legislazione con delle strutture organizzative vecchie, in
particolare nell’ultimo anello della catena, province e comuni. Un
altro aspetto “accomuna” i due schieramenti: la non informazione
ai cittadini. Se ne parla tra addetti ai lavori, solo pochi cittadini
più “sensibilizzati” o che partecipano alle riunioni politiche -
sempre meno - sanno che qualcosa bolle in pentola. Si tratta di un
argomento che non paga politicamente, dal comune più piccolo al
livello nazionale, in quanto sostenuto dalla tradizionale propensione
nazionale alla conservazione; eppure è uno dei problemi più
importanti, uno snodo fondamentale per la drastica riduzione dei
costi strutturali dello stato da un lato e, dall’altro, di disporre
di strutture efficienti ed adeguate a rispondere meglio ai bisogni
dei cittadini. Come
già detto altre volte, il tempo diviene sempre più scarso, perché
si tratta di un lavoro che richiede anni, se si vuole farlo bene. In
particolare per quanto riguarda l’abolizione delle Province,
necessaria come quella delle Prefetture o Ufficio Territoriale di
Governo (quanti doppioni e sovrapposizioni di funzioni?), per le
quali il trasferimento delle competenze verso l’alto e verso il
basso, e la ristrutturazione degli uffici, possono risultare
oggettivamente molto complessi. Per
un’informazione più aggiornata, lo stato attuale dell’arte è la
legge (Legge 122 del 30/07/2010) che ha introdotto l’obbligo
dell’esercizio in forma associata delle funzioni fondamentali da
parte dei piccoli comuni, che anticipa un pezzo della riforma della
carta delle autonomie. L’elenco è quello provvisorio contenuto
nella delega sul federalismo, che abbraccia le funzioni: di
amministrazione, gestione e controllo; di polizia locale; di
istruzione pubblica; nel campo della viabilità e dei trasporti; del
territorio e dell’ambiente (fatta eccezione per l’edilizia
residenziale e per il servizio idrico integrato); del settore
sociale. La norma sancisce l’obbligatorietà dell’esercizio delle
funzioni fondamentali da parte dei comuni e introduce l’obbligo,
per quelli con meno di 5mila abitanti, dell’esercizio in forma
associata attraverso convenzione o unione. Per evitare duplicazioni,
gli enti non possono svolgere singolarmente una funzione fondamentale
il cui esercizio è stato demandato a una forma associata. Inoltre,
una stessa funzione non può essere svolta da più di una forma
associata. Spetta alle regioni il compito di legiferare sulla
dimensione ottimale per lo svolgimento delle funzioni fondamentali,
previa concertazione con i comuni interessati. Le leggi regionali
devono indicare i termini entro i quali i comuni devono attivare
l’associazione di funzioni. Si
tratta di un processo importante che toccherà i cittadini e i
dipendenti dei comuni. I cittadini perché troveranno grandi
cambiamenti nei tempi e nei luoghi ove svolgere le loro pratiche con
il comune; i dipendenti in quanto, trattandosi di una
ristrutturazione importante, se si dovrà fare efficientemente, non
potranno non essere toccati nel modo, e nel luogo anche, dove
svolgere il loro lavoro. Essendo
il nostro Comune già inserito in un’Unione di Comuni, è
impensabile che per l'attuazione della legge scelga la strada delle
"convenzioni". Si tratterà quanto meno di concentrare le
attività previste dalla legge, cioè la quasi totalità delle
attività comunali, nell'Unione dei Comuni della Val di Merse,
facendo diventare la stessa una vera Unione. Questo
è un passo obbligato e, come già trattato nei precedenti articoli,
questo dovrebbe essere come il naturale passaggio ad una successiva
“fusione”, con la creazione di un solo più grande comune,
mettendolo negli obiettivi da raggiungere entro il minimo numero di
anni, il tempo necessario a rodare il sistema della Unione, che
potrebbe essere la fine dell’attuale legislatura. Nel stesso
periodo si dovrebbero studiare anche i nuovi futuri confini del
costituendo nuovo comune, per dare quella omogeneità strutturale di
territorio, indispensabile al buon funzionamento e al servizio dei
cittadini. Che
questo aspetto non sia eludibile lo dimostra anche il fatto che la
nostra Unione dei Comuni si sta dotando di una seconda sede
“secondaria”, a Rosia, per “essere sempre più vicino ai
cittadini e alle loro esigenze, oltre che per migliorare la
funzionalità dell’organizzazione”, considerata anche “l’esigenza
di una sede più baricentrica all’interno della Val di Merse”. Ci
sembra un implicito riconoscimento che Radicondoli, che non è in Val
di Merse, non rientra nella logica di gestire da parte dell’Unione
un territorio omogeneo per geografia, collegamenti, attrazione
economico-commerciale. Quindi anziché modificare i confini in modo
più razionale ed adeguato agli obiettivi, si rischia di vedere
aumentati i costi di struttura con la creazione di una seconda sede. Come
d’altra parte, sul lato opposto del confine, sarà da considerare
l’estraneità alla Val di Merse di Vescovado, che dista 50 km dalla
sede di Radicondoli e 25 km dalla nuova sede secondaria di Rosia,
mentre dista 9 km da Monteroni che inoltre si trova sul percorso
abituale per andare a Siena, centro di attrazione naturale, sotto il
profilo economico e lavorativo.
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