MURLOCULTURA n. 3/2008

Come ci si divertiva noi vecchi quando “s’era piccini”

I giochi dei nostri tempi

di Luciano Scali

2a puntata

Associazione Culturale di Murlo
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Giocare a Pio

La fila del Pio - disegno di Luciano ScaliMolto più appassionante era giocare “a Pio”. Vi potevano partecipare più giocatori con una quota variabile da cinque a dieci barberi per ciascuno e per ogni giocata.
Tale quota dipendeva dal numero dei giocatori:
più questi era alto e minore era la quota dei barberi da giocare. Occorreva però uno spazio abbastanza ampio per giocarlo poiché il totale di tutte le poste veniva allineato in unica fila che poteva risultare lunghissima (Fig. 1)
.

Fig. 1

Veniva quindi fissato il limite minimo dal quale tirare detto “Alisi” (ovvero: al limite) dopo designato con la conta, colui che avrebbe dato inizio al gioco e stabilito quale fosse il Pio (uno dei due barberi posti alle estremità della fila). Intanto occorre chiarire la funzione del Pio. Il barbero designato con tale nome era molto importante poiché consentiva a colui che riusciva a colpirlo, di appropriarsi di tutti i barberi della fila. Se durante il gioco un partecipante colpiva uno dei barberi posti in fila, vinceva tutti quelli che si trovavano da quel punto alla fine della fila stessa. Questo voleva dire che: più si colpiva vicino al Pio, più alto era il bottino di gioco”. Per stabilire la posizione di tiro nel gioco vero e proprio, secondo l’ordine deciso dalla conta, il concorrente lanciava il proprio barbero oltre la linea dell’Alisi e il punto ove questi si fermava costituiva il limite da dove tirare. Iniziava colui che si trovava più lontano dalla linea dei barberi da colpire. C’era poi quello che preferiva non rischiare il colpo grosso ed al suo turno diceva: Alisi! Il che voleva dire che avrebbe tirato per ultimo accontentandosi di un bottino quasi sicuro ma limitato a quanto restava dopo i tiri di tutti gli altri. Chi iniziava per primo, anche se più lontano, aveva il vantaggio di dover colpire la distesa dei barberi completa e quindi più lunga e la possibilità di fare un tiro non troppo mirato al Pio per prendere tutto, ma puntare ad una zona ad esso vicina per assicurarsi una buona parte dell’intera posta. Se il colpo riusciva, gli altri avrebbero dovuto accontentarsi di spartirsi quanto restava. Se alla fine di tutti i tiri dei concorrenti restava ancora il Pio con qualche barbero non colpiti, questa rimanenza andava ad aggiungersi al numero dei barberi del gioco successivo. Prima di iniziare il gioco si assisteva ad una fase  molto importante, ovverosia alla scelta del barbero con cui tirare: “Bòcco o Saltarello”. Ambedue le parole stavano a indicare due diverse caratteristiche del barbero: il Bocco lasciato cadere sul terreno solido da una certa altezza, rimaneva a terra mentre il Saltarello rimbalzava. Tali qualità dipendevano dallo stato acquisito durante la cottura: il primo leggermente mal cotto da usarsi sul terreno solido o lastricato, il secondo invece cotto giusto da usarsi solo sulla terra battuta. Nell’eseguire questi giochi bisognava tenere conto di un fattore importante legato “alla sicurezza” come diremmo oggi. La lunga linea del Pio o la buchetta piena di barberi di chi rizzava la zumberina erano occasioni appetibili per i più grandi e prepotenti che s’improvvisavano razziatori specie se la fortuna non li aveva favoriti fino allora nei giochi regolari. Arrivavano all’improvviso come falchi sui malcapitati ignari appropriandosi di quanto si trovava a portata di mano incuranti delle loro proteste. Nell’effettuare il “blitz”, era consuetudine pronunciare una parola che rappresentava tutto un programma: “Roa!  Era quasi un rito che in qualche modo legittimava il gesto prevaricante lasciando piangente il rapinato il quale tentava di recuperare quanto gli era stato tolto raccomandandosi ai più grandi oppure a chi, per il suo carisma era riuscito ad acquisire una certa autorità sugli altri. Spesso però l’occasionale paladino, chiamato in causa per raddrizzare un torto, si rivelava persino peggiore dei prevaricatori, trattenendo per se quanto invece avrebbe dovuto restituire al legittimo proprietario. Malgrado i rischi prospettati, i giochi continuavano riempiendo giornate ove l’impossibilità di fruire di giochi prefabbricati, costringeva i ragazzi a stimolare la loro fantasia per crearsene da soli. Sempre con i barberi era possibile dedicarsi ad attività ludiche col solo scopo di divertirsi senza pensare al profitto. In questo caso era necessario crearsi strutture adatte capaci di consentirle ricorrendo all’impiego di materiali poveri ed a portata di mano come la sabbia, il tufo e l’acqua. Si costruivano così piste dagli incredibili percorsi sulle quali far correre i barberi (Fig. 2)

La pista dei Barberi - disegno di Luciano ScaliFig. 2

La sabbia veniva  modellata esclusivamente con le mani: i più grandi pensavano alla progettazione ed alla costruzione, mentre i più piccoli si davano da fare per scavare e trasportare il materiale dal luogo dove si trovava a quello dove veniva impiegato. Spesso la pista si rivelava come un vero capolavoro sia di percorso che di “sicurezza”, doveva presentare difficoltà di vario livello ma anche garantire al barbero di rimanere al suo interno durante le fasi di gioco. Si faceva fronte a questa seconda indispensabile condizione rialzando i bordi della pista di quel tanto da non essere superata dal barbero in movimento. I bordi della pista si tiravano su con le mani esercitando la dovuta pressione sulla terra fintanto questa non rimaneva su da sola indurendosi poi nell’asciugarsi. All’interno le pareti si raccordavano col fondo della pista e, se il costruttore era abile ed esperto, riusciva a rendere più veloce il percorso aggiungendo quel tanto di materiale nelle curve da assecondare la corsa del barbero sotto la spinta del biscotto. Con tale termine s’intendeva indicare il colpo impresso alla pallina dal dito medio costretto a caricarsi di energia con l’essere trattenuto dapprima dal pollice piegato e poi liberatosi vincendone la resistenza. Poteva anche essere usato l’indice, ma con minor potenza, oppure il pollice trattenuto dall’indice. L’impiego del tipo di biscotto legato all’uso delle varie dita, dipendeva dal diverso approccio col barbero a seconda delle variabili realtà della pista e del grado di difficoltà da affrontare. Di solito si partiva dalla metà di un rettilineo (T), si affrontava poi una curva, oppure una serie di curve, prima di accingersi a scalare un ripido pendio che, affascinati dalle gesta di Bottecchia e Bartali al giro di Francia, veniva identificato nell’Izoard,  famoso colle delle Alpi, che metteva a dura prova l’abilità e la forza dei partecipanti costretti a spingere il barbero fino in cima con un colpo solo per evitare di vederselo tornare indietro. Seguiva poi una tortuosa discesa che riconduceva in pianura dopo aver attraversata una serie di gallerie, sottopassi e ponti dall’aspetto veramente suggestivo. Occorreva poi affrontare una torre identificata come il Galibier, assieme a una serie di cime simili al “tabooga” ritenute a buon titolo i Pirenei, prima di tornare al punto da dove eravamo partiti. Di solito si giocava almeno in tre, ma non più di cinque. La conta stabiliva l’ordine di tiro ed ogni partecipante aveva il diritto di effettuarne tre consecutivi. Dopo i primi tiri si delineavano le posizioni ed ognuno ripartiva dal luogo dov’era arrivato.

Occorreva una certa dose di abilità in questa circostanza, colpo d’occhio e forza calibrata nelle dita. Se a seguito di un tiro troppo forte un concorrente faceva schizzare fuori dal percorso la propria pallina, doveva ritornare al punto da dove aveva tirato e perdere il turno. Ciò voleva dire farsi sorpassare o restare troppo indietro col rischio di essere doppiato e quindi eliminato. All’inizio si stabiliva il numero dei giri da percorrere; vinceva chi arrivava per primo al traguardo dopo averli fatti tutti. Altrimenti si poteva giocare ad oltranza eliminando, via via i doppiati. Vinceva chi rimaneva solo. Se il costruire la pista inorgogliva e dava soddisfazione, altrettanto piacere dava il distruggerla, per non farla usare da coloro che stavano solo a guardare, prima di tornare a casa quando si faceva buio. Di solito veniva calpestata, ma se la terra era ancora umida, se ne facevano palle per tirarsele addosso emulando così le gesta dei famosi Ragazzi della via Paal, racconto di Molnar assai di moda a quei tempi. La pista poteva prestarsi anche a simulare il Palio di Siena, ma per fare questo si avvaleva di un manufatto speciale ove il percorso dei barberi non dipendeva dall’abilità dei concorrenti bensì dalla casualità (Fig. 3).

La pista del Palio con i Barberi - disegno di Luciano ScaliFig. 3

Si trattava di un piano inclinato e per realizzarlo ci si serviva di una tratto di scala ove veniva realizzato con la terra un percorso serpeggiante in fondo al quale questi proseguiva in piano e dopo una curva più o meno secca terminava allargandosi. Ci si poteva giocare fino a dieci ragazzi. In un sacchetto si mettevano i barberi e ognuno ne “pescava uno” identificandosi poi nella contrada toccata in sorte. Il mossiere, di solito uno dei ragazzi più grandi e quindi con maggiore autorità, poneva un’asticella all’inizio della pista, proprio dove cominciava la discesa allineandovi dietro i barberi dopo averne stabilito l’ordine prelevandoli sempre dal solito sacchetto poi, servendosi di ambo le mani sollevava l’asticella e la corsa aveva inizio. I barberi prendevano velocità seguendo lo zig-zagare della pista contrastandosi per affrontare con forte abbrivio il tratto in piano, smorzare la velocità contro la curva e arrestandosi sullo slargo. Vinceva chi per primo riusciva a oltrepassare la linea d’arrivo di solito evidenziata da un bandierino bianco e nero. Inutile aggiungere che durante la corsa i barberi erano seguiti dal tifo dei partecipanti e degli spettatori, proprio come accade nel Palio vero. Per “correre il Palio” con i barberi che rappresentassero in maniera inequivocabile le contrade partecipanti, occorreva organizzarsi prima per rivestire con carte colorate quelli di terracotta. Ricordo che all’Oratorio del Sacro Cuore in via del Sole, padre Santini metteva a disposizione del gruppo di ragazzi intenzionato ad eseguire tale lavoro un tavolo e delle sedie. Ci disponevamo tutti attorno con i mazzetti di carta colorata acquistati alla cartoleria della “sora Stella”, oppure “all’appalto” di Gano Salvatori, armati di forbici e di colla fatta con acqua e farina, per rivestire i barberi. Era un lavoro difficile poiché bisognava ritagliare tanti spicchi di carta di vari colori e poi incollarli sul barbero il cui diametro non arrivava a due centimetri.  I più facili erano quelli che avevano il fondo unito come: Nicchio, Torre, Aquila, mentre per gli altri occorreva disporre gli spicchi alternati. Quando la superficie della sfera era completata, occorreva ritagliare una fascetta che non facesse vedere le giunte fra gli spicchi della semisfera superiore con quelli inferiore e mettere poi due piccoli dischetti ai poli della sfera per nascondere qualche magagna ai vertici degli spicchi. Un lavoro da certosini e di una difficoltà estrema dove le dita appiccicaticce si attaccavano agli spicchi incollati con tanta fatica tirandoli via dal barbero e facendo ripetere l’operazione un’infinità di volte. Alla fine il lavoro non risultava poi tanto male, magari un po’ impiastricciato di farina, ma nel complesso da renderci orgogliosi lo stesso.

(continua)

                                     Il rivestimento del Barbero - disegno di Luciano Scali

 


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