MURLOCULTURA n. 3/2012

Il trapano di Sunta

di Luciano Scali


Associazione Culturale di Murlo
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Più il tempo passa e più mi convinco dell’esistenza di legami tra le cose e la memoria più lontana. Questi collegamenti possono saltare fuori in qualsiasi momento e nei luoghi più impensati come l’orto che si trova al disotto del murello di Murlo proprio di fronte a Vignali. Giorni or sono nel percorrere all’ingiù lo stradello delle Piagge, ho rinvenuto un frammento di coccio piuttosto interessante formato da due pezzi di terracotta “smaltata” tenuti assieme da ciarpette di filo di ferro. Quella vista ha costretto la mente a fare un salto indietro nel tempo, agli anni dell’infanzia quando a Siena vivevo la vita di rione dove periodicamente arrivava un incredibile personaggio che non potrò dimenticare. Si trattava di una donna dall’età indefinibile, con abiti dimessi e le spalle coperte da uno scialle di lana, la quale portava con se l’occorrente per esercitare la sua professione. Una “sporta di schiancia”, uno sgabello con le gambe corte e una sacca a tracolla dalla quale spuntava un mazzo di stecche d’ombrello. Completava l’attrezzatura un ombrello intero di tela verde cerata col manico di legno tinto d’arancione. Mi sembra di ricordare che si chiamasse “Sunta” ma non ne sono ben sicuro, mentre sono certo che girasse per le vie di Siena e dei quartieri attorno le mura per riparare ombrelli e stoviglie di coccio rotti. Al suo arrivo si metteva a sedere sempre nel solito posto e subito dopo veniva attorniata dalle donne che le recavano gli oggetti da riparare. Noi ragazzi restavamo per ore incantati ad osservare la donna occupata nel suo lavoro ben lieti di correre alla fonte per procurarle l’acqua occorrente a “preparare il cemento” usato come collante per rifinire l’opera. Ma quello che colpiva di più era un attrezzo strano che sembrava provenire da altri tempi, fatto di niente ma che all’atto pratico si rivelava estremamente efficace. Si trattava di un rudimentale trapano a mano, dove l’elemento principale era formato da un’asticella di legno sulla quale era inserito un disco pure di legno e con una punta metallica ad una estremità. Questa poteva ruotare dentro a un foro praticato in una tavoletta alla quale era unita con una porzione di corda. Tutto qui, ma il vederlo funzionare stupiva per la sua semplicità e soprattutto per la genialità di chi aveva saputo concepirlo e metterlo assieme. La donna se ne serviva per praticare piccoli fori nei frammenti del coccio da riparare attraverso i quali far poi passare il filo di ferro per legarli assieme e ricostruire così il manufatto lesionato.
Trapano a mano - disegno di Luciano ScaliLa figura mostra la “macchina” nel suo insieme anche se, a prima vista, non riesce a chiarirne il funzionamento. Osservando con attenzione la figura se ne possono ben descrivere i componenti: una tavoletta con un foro centrale di diametro superiore di circa otto millimetri rispetto al diametro dell’asticella porta punta, e due fori alle estremità attraverso i quali far passare i capi della corda poi subito annodati per non tornare indietro. Prima di essere resa solidale alla tavoletta, la corda veniva fatta passare attraverso un foro praticato ad una delle estremità dell’asticella. All’altra estremità veniva fissata la punta per forare e poco più sopra prendeva posto un disco di legno di circa otto centimetri di diametro e quattro circa di spessore. Si aveva così una macchina semplice ove l’asticella fungeva da albero porta utensili; la tavoletta da organo motore, la corda da cinghia di trasmissione e il disco da volano per assicurare il riavvolgimento della corda attorno all’asticella. Il tutto funzionante a mano, quella della Sunta, s’intende. Prima di eseguire il lavoro la donna si assicurava che i pezzi da rimettere assieme ci fossero tutti, che non fossero proprio “tritolame”, che combaciassero perfettamente e che potessero essere tenuti saldamente in mano mentre vi venivano praticati sopra i fori. Quando Sunta aveva individuata l’esatta procedura per eseguire il lavoro, marcava un piccolo puntino sul coccio dove sarebbe stato forato in modo da appoggiarvi la punta quindi “caricava” il suo utensile. Ruotando la tavoletta attorno all’asse porta utensile, i tratti di corda che la collegavano ad una delle estremità dell’asse, vi si avvolgevano attorno trascinando la tavoletta verso l’alto. A quel punto lo strumento era pronto per l’uso. Sunta appoggiava la punta alla piccola asola sul coccio, spingeva con decisione la tavoletta verso il basso costringendo le corde a srotolarsi in modo da imprimere all’asse un movimento rotatorio consentendo alla punta di “mordere” il coccio. Ma l’operazione non finiva con la tavoletta a fine corsa, poiché la mano di Sunta non vi si soffermava sopra. Allentava la pressione esercitata fino a quel punto lasciando all’abbrivio del disco-volano il compito di far riavvolgere la corda attorno all’asse per riportare in alto la tavoletta e ricaricare automaticamente lo strumento per la successiva tornata. L’operazione andava avanti così fintanto che la punta non appariva dall’altra parte del coccio. La cosa più curiosa consisteva nell’alternanza del senso di rotazione dell’assicella costretta a modificarsi ad ogni operazione a causa del mutato senso di riavvolgimento della corda sopra l’asse stesso. Semplice vero? Non credo proprio; direi piuttosto: difficile a comprendersi, data l’estrema semplicità dei componenti il “magico” attrezzo. Ma la cosa non finiva qui se, per caso, si faceva attenzione alla punta usata per forare il coccio. Sunta, pur non avendo studiato, dimostrava di possedere uno spiccato senso pratico avvalendosi di porzioni di stecche d’ombrello con le quali riusciva a riparare quelli che la gente le portava.

Trapano a mano - sequenza di lavoro - disegni di Luciano Scali

Il disegno mostra il dettaglio della punta ove si manifesta l’attitudine dei suoi spigoli terminali ad agire con la medesima efficacia sul coccio, con l’alternarsi del moto dell’assicella. Il vuoto della stecca fungeva “da angolo di spoglio” a questa semplice, ma meravigliosa punta per forare, nata da impellenti necessità pratiche che portavano la mente a intuire il possibile riuso di oggetti nati per svolgere tutt’altri impieghi.



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