MURLOCULTURA
n. 4/2005 |
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Gino Civitelli, artista
delle crete senesi Intervista di Filippo Ferri |
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Uno studio fosco, rischiarato da una luce bassa e opaca; una
tavola di ulivo dipinta, con le venature del legno trasformate in
nuvole tempestose, e una testa di Eolo che vi sbuca soffiando con
impeto sulle crete. Questa è la prima immagine che ricordo
dell’arte di Gino Civitelli, autore multiforme e unico nel suo
personalissimo stile. Un percorso artistico, il suo, che dura da ormai
più di quarant’anni, cominciato nella più tenera
giovinezza e portato avanti – non senza difficoltà –
nel corso del tempo. Gino Civitelli nasce “mezzadro” (
titolo al quale tiene moltissimo) in una delle grandi famiglie
contadine dell’epoca, “una tribù di apaches”,
composta da genitori, nonni, zie, fratelli, sorelle e cugini. Una
piccola comunità nella quale Gino trova una straordinaria fonte
di formazione individuale, ancor prima che artistica. In essa, Gino
è circondato da una gran quantità di persone
(“tanti padri adottivi”) e trova molteplici stimoli che lo
affascinano. Uno dei primissimi contatti con l’arte, arriva dalla
grande fornace del podere, in funzione una volta l’anno per
produrre mattoni, mezzane e molto altro. In quelle occasioni, i
fornaciai (“liberi imprenditori di Buonconvento”)
trasformavano l’aia in un immenso laboratorio a cielo aperto, e
trovavano anche il tempo di creare piccoli animali e piccole macchine
d’argilla, spade di legno, e altri giocattolini. Tanta
abilità manuale fornisce all’ancora piccolo Gino una
suggestione così forte, che lo accompagnerà per tutto il
resto della carriera. La campagna funziona come vera fucina di
formazione pittorica. Le trappole per gli uccelli, le tane degli
animali, i paesaggi notturni s’imprimono indelebilmente nella sua
memoria e influenzano i primi tentativi di composizione. Durante il
periodo delle scuole elementari, la passione per il disegno si rafforza
e Gino impara una fondamentale quanto semplice regola che
tutt’oggi lo ispira: saper osservare. Scrutare con attenzione,
concentrarsi sulle piccolezze e sui dettagli. Così comincia a
disegnare le differenze tra gli animali, le stagioni, i colori, le
tonalità del sole che si modulano sulle colline, il grano, i
particolari degli insetti, le venature delle foglie. Ma il suo disegno
immagazzina subito altri soggetti: macchine da corsa, rocchetti,
tegole, biciclette. La giovinezza pittorica di Gino è dunque un
caleidoscopio di forme e soggetti, di sensazioni ed impressioni che si
respirano profondamente in ogni sua opera. All’età di
quindici anni, la vita di Gino cambia completamente. Lascia
l’antica “tribù” per una famiglia nucleare, e
la campagna aperta per il paese. E così cambiano anche le
suggestioni. Una di esse, insospettabile forse, sono proprio i fumetti.
Da Tex Willer a Capitan Micky, i primi eroi del dopoguerra incendiano
la sua mente e Gino li legge continuamente (“dalla mattina alla
sera, ero sempre lì a leggere fumetti”). Il dipingere si
diversifica e spazia; ha adesso come oggetto i fucili, le pistole,
carabine, nonché i cavalli, gli indiani, e tutti gli altri
personaggi delle tavole degli albi. Interessato ma non emozionato dal
disegno tecnico – che non lo stimola nella sua freddezza –
Gino rifugia la propria fantasia nelle crete senesi. “Mi
divertiva vedere diversi piani di sequenza, da punti alti, sulle
colline…” La passione per la pittura, rimasta in parte
sopita negli anni delle scuole superiori, riesplode
all’età di ventitrè anni e trova
un’incredibile fonte di ispirazione nei volti dei malati. Il
lavoro in manicomio lo porta infatti a contatto colle facce
indecifrabili degli infermi di mente, stimolo nuovo e affascinante.
“Ciò che mi colpì maggiormente era la grandissima
espressività di quei volti, delle mani, la gestualità, la
postura… mi trasmettevano nuove emozioni, le facce scavate dalle
privazioni… non ne avevo paura come la maggior parte della
gente.” Ritenendo inadeguato il disegno, Gino sceglie come mezzo espressivo la fotografia e vive una nuova fase artistica. A questa ripresa corrisponde un periodo di maggiore autostima, a cui contribuì non poco Romeo Rolli, insegnante all’Istituto d’Arte di Perugia. Straordinario ceramista, da lui Gino acquisisce la mentalità per “andare sempre avanti”; Gino capisce di non dover lavorare “per compiacersi e compiacere, ma per fare ciò che si sente di fare.” |
Apprende
inoltre l’importanza di sperimentare nuovi materiali, nuove
strade, senza mai fermarsi. È allora che Gino fa una conoscenza
fondamentale per la sua evoluzione come artista. A Tarquinia ha la
fortuna di incontrare Sebastian Matta (per dieci anni in laboratorio
con Pablo Picasso e conoscente di Vasilij Kandinskij), anziano ma
ancora effervescente, che crea un laboratorio artistico per chiunque
volesse parteciparvi. Gino vi prende parte e apprende
“l’arte con la A maiuscola.” Per esempio,
“l’importanza della purezza dell’arte africana, alla
quale tutti si sono rifatti, in un modo o nell’altro. Come
Modigliani. Non realizzare mai le rappresentazioni con una sola
tecnica, ma sperimentare nuove tecniche di rappresentazione.”
Gino, non avendo frequentato scuole specifiche, cerca di sopperire alle
sue mancanze tecniche scegliendo la forma a lui più congeniale,
cioè l’acquerello. Gino vive il momento “più
spumeggiante” della sua carriera artistica. “Un artista non
è un pozzo senza fine, è come un pozzo artesiano, che
alle volte può dare di più, alle volte di meno.”
Gino – come ogni creativo – vive momenti di
difficoltà pittorica, o perché la strada di
sperimentazione imboccata è giunta ad un vicolo cieco, oppure in
concomitanza di avvenimenti personali che lo portano anche a cambiare
totalmente tecniche e colori. Monocromie, colori freddi, ritrarre
l’inverno, la nebbia, quasi a rientrare in un campo intimistico,
sono i sintomi di una fase di passaggio e di depressione. Giunto a
quarant’anni, la pittura è ormai divenuta una droga
insostituibile. “Non ne puoi più fare a meno, ma è
anche la terapia, il metodo con cui costruisci te stesso, sfuggendo al
baratro immenso dell’autogratificazione. Cominciai a fare delle
mostre per confrontarmi con il pubblico. Fissando, però, la mia
soglia di prostituzione.” Tale confronto funziona come propulsiva
iniezione di fiducia, una spinta per fare delle mostre personali, una
nuova sorgente di entusiasmo. Sempre, ovviamente, entro la soglia di
prostituzione; cioè, “sfuggendo all’arte di
regime”. L’acquerello è frutto di una produzione
estremamente veloce, e dunque il suo problema diventa la
ripetitività. Ma l’arte di Gino non è fatta
soltanto di acquerelli. Splendidi sono i vasi, le coppe, i manufatti
etruschi da lui riprodotti con rara perizia. E poi le tavole: solide
tavole di ulivo lavorate e dipinte con uno stile assolutamente unico e
originale. Gino dà al legno nuova vita; come il traduttore di
una lingua antica, ne interpreta le venature, i nodi, le ombre e le
luci. Ne estrae figure slanciate, sinuose, fuse
nell’inconfondibile tonalità dell’ulivo senese.
Nelle tavole di Gino, le crete sono più vivide e vere che in una
istantanea. In esse, i colori dei tramonti e delle albe si stendono sui
paesaggi collinari sempre uguali e sempre diversi nella loro aerea
bellezza; ed ogni volta, contemplandole, si scopre qualcosa di nuovo:
un dettaglio, una sfumatura, uno scorcio che racconta una storia nuova. Un vero tesoro artistico delle terre di Siena. Dinanzi alla propria carriera artistica, voltandosi indietro a guardare, cambierebbe qualcosa o si lascerebbe tutto come lo si è fatto? “Cambierei totalmente.” Gino non perderebbe certo tempo – come dice lui – e frequenterebbe di più altre persone. Qualche rimpianto, come ogni artista, lo nutre. Inoltre, non si sarebbe concentrato sull’acquerello, ma avrebbe studiato maggiormente le tecniche antiche, in particolare quelle etrusche. Insomma, parlando di arte con Gino Civitelli, ripercorrendo gli anni bui e quelli fecondi, non si trova nulla di scontato, nulla di zuccheroso o di svenevole. Non fumose elucubrazione concettuali sull’artista, bensì un rapporto concreto, vivo con il reale, con l’arte intesa come parte integrante della vita d’un uomo. “L’ispirazione non esiste. Esistono semplicemente momenti di fecondità ed essi avvengono casualmente. Per andare avanti (nell’arte) bisogna farsi del male. Porta una maledizione.” Quale? Quella di sentire più delicatamente quello che si ha dentro e vivere nella frustrazione della ricerca per esprimerlo al meglio. |
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