MURLOCULTURA
n. 4/2006 |
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PERSONAGGI E LUOGHI DEL MITO/1 NICCHE, LA SUA FORNACE, LA SUA CUCINA di Annalisa Coppolaro |
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Cuocere
calcina non è cosa da niente: la temperatura della fornace deve
essere altissima, ed il procedimento si impara in molti, moltissimi
anni di lavoro. Nicche, al secolo Beppe Soldati, lupompesino doc, lo
fece per molti anni nella sua fornace (la Fornace di Nicche), prima di
passare ad una occupazione che gli era sempre piaciuta: cuocere…
cibo. Beppe era un cuoco, così l’ho conosciuto io: un
personaggio di Lupompesi, qui nato, e qui tornato dopo la pensione,
Beppe era amico di tutti i bambini, e tra l’altro era un
po’ parente di mio nonno. Era inconfondibile, con il suo passo
dondolante, il corpo massiccio di chi ama cucinare e mangiare, la testa
pelata ed il nasone, il suo borbottare battute esilaranti magari seduto
al fresco del noce che fino a pochi anni fa proiettava la sua magica
ombra sul Poggetto in cima a Lupompesi. A noi bambini raccontava storie
dei ristoranti fiorentini dove lavorava, dei conti per cui era stato
cuoco di famiglia per oltre trent’anni. Lo adoravano, i suoi
conti, e lui adorava loro. Certo, le cose che ci confessava di loro
erano come favole talvolta un po’ boccaccesche, narrate tra un
tiro e l’altro delle sigarette fumate a catena, oppure tra un
rimescolare di tegame e l’altro nella sua cucina o nella nostra.
Quando c’era un battesimo, un compleanno, una festa qualsiasi, si
poteva sempre contare su di lui. I suoi decenni di esperienza gli
avevano insegnato migliaia di ricette favolose, dai crostini agli
antipasti più squisiti, alle paste fatte in casa alle carni
arrosto, dalle salse spesso originali e strepitose fino ai dolci al
forno o al cucchiaio. Le ricette che ho imparato da lui non le ho quasi
mai trovate sui libri di cucina ma sono quelle più acclamate
quando ho gente a cena: originale, creativo, anche un po’
strambo, Beppe non era certo una persona come tante. Era cresciuto in
una famiglia povera tra la prima e la seconda guerra, con il padre
Nicche, la madre Isola, che ricordo ancora seppur vagamente, il
fratello Guido e due sorelle. A scuola non era granché: una
delle sue battute più divertenti me la diceva spesso mia nonna,
quando mi raccontava di Beppe da piccino. “Era un cittino tondo,
buffo, che chiacchierava veloce come ora. Abitava alla Bandita e da
lì c’era da camminare per andare a scuola. Ma a lui non
piaceva tanto studiare, e un giorno tornò a casa a capo basso e
sbottò: “O mamma, la scuola va poco bene. Mi sa che io
invece d’imparà, sparo!’’ La sorella maggiore,
Giulia, a scuola era davvero brava e, quando entrò in convento,
ne furono tutti contenti. Da novizia nelle Figlie della Carità
divenne suora. Ho delle foto in bianco e nero dove Suor Lorenza, come
si chiamava all’inizio, era ritratta a Firenze con le consorelle,
in cappelloni bianchi dai lunghi pinzi che ricordano le donne
fantastiche dei dipinti fiamminghi. Suor Lorenza si fece strada, e
divenne, negli anni Settanta, la Madre Superiora dell’Ospedale
Militare San Gallo di Firenze. Tornò a poter usare il suo vero
nome, ed era molto affezionata a mia nonna. Lei, ogni anno in estate,
partiva per Firenze e mi portava con sé: cuciva per le suore e
per la ‘’zia suor Giulia’’ come la chiamavo da
piccola. Con mia nonna, coltivavano i miei interessi per la lettura e
la scrittura: zia Suor Giulia mi regalò una splendida edizione
della Divina commedia in otto volumi che ho ancora. Beppe, che sembrava
scherzasse sempre ma che in effetti aveva le idee ben chiare su un
sacco di cose, veniva spesso dalla sorella, e, sempre in modo educato
ma convinto, iniziava lunghe discussioni sui temi della fede, o meglio
sulle tante riserve che aveva in tema di religione. La sorella lo
rimproverava gentilmente per l’irriverenza, e poi ci diceva:
‘’Non lo ascoltate, eh…!’’ Così
Beppe usciva dal refettorio con la faccia un po’ lunga, ma durava
poco: appena accanto ai fornelli, sembrava rifiorire. Me lo ricordo con
la sigaretta sempre in bocca, un occhio socchiuso per evitare il fumo,
il viso ridente mentre raccontava qualcuna delle storielle sulla
Bandita, o qualche sua avventura con la famiglia del conte, in Spagna o
in Francia, in una delle ville dove Beppe passava le ferie ogni
anno cucinando per qualche bellissima festa o cocktail party vicino
alla spiaggia. A noi cittini di Lupompesi, che al mare andavamo ogni
anno a Marina di Grosseto in affitto, le spiagge spagnole sembravano
luoghi di sogno, così ci accoccolavamo sotto il noce al fresco
ad ascoltare Beppe e fargli mille domande su quelle avventure
“all’estero”. Il tempo della fornace era lontano,
nessuno ci cuoceva la calce da anni, e Beppe ne parlava ogni tanto
vagamente. Ma a noi interessava di più la Spagna e San Filiu, ed
anche il motivo per cui Beppe non si fosse ancora sposato.
‘’Io moglie non è che non la trovo, non la
cerco’’, ci diceva scuotendo la testa come faceva sempre
lui. Non ci convinceva, così a volte conoscendo una di quelle
“signorine invecchiate”, come si chiamavano allora con una
espressione poco politically correct, ci chiedevamo se non potesse fare
da moglie a Beppe. Ma lui, che viveva a Firenze passando qualche
settimana a Lupompesi dal fratello Guido, meditando di tornare una
volta in pensione, una moglie non serviva. Aveva una
“fidanzata”, si diceva, a Firenze, ed io l’ho anche
conosciuta. Ma tutto sommato, non sembrava che a Beppe mancasse una
moglie: aveva la sua casa, sapeva farsi da mangiare e, quanto a pulire,
lo faceva da solo, con Guido, quando era a Lupompesi. Poi in pensione
ci andò davvero. Il dottore gli impedì di fumare e mangiare ‘’una finocchiata intera a colazione’’, così tornò a Murlo, comprò un furgoncino e prese a lavorare i campi della Bandita insieme al fratello -un altro personaggio indimenticabile che, con il suo motorino anni Sessanta, partiva ogni giorno d’inverno o d’estate, avvolto sempre in una sciarpa grigia, lasciandosi dietro una scia di fumi densi e di rumore assordante. Tornato a Lupompesi, Beppe passava i pomeriggi estivi a chiacchierare nel Poggetto, ad aiutare noi donne se c’era una torta o una festa da fare e, sotto Natale, a giocare a tombola a casa nostra. I miei bambini lo adoravano, ridevano tanto ai suoi scherzi, hanno imparato a dire ’’E’ uguaaale….’’, nel modo in cui lo diceva lui e gli è mancato molto, lo scorso Natale, quando a tombola non è venuto. Un giorno, proprio intorno a Natale, mi ha telefonato la “contessa di Beppe” da Firenze, lo cercava e a casa sua a Lupompesi non rispondeva mai nessuno. ’’Così ho fatto questo numero, so che siete un po’ parenti’’. Le ho detto cosa era accaduto. Ha pianto molto al telefono, senza vergognarsi di dimostrare il suo dolore a una sconosciuta. Ecco, Beppe di Nicche era davvero unico. Beppe non ha lasciato una moglie in lacrime e nemmeno figli. Ma tanta gente non lo dimenticherà, a Lupompesi o altrove. |
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