MURLOCULTURA
n. 4/2006 |
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Una cronaca del tempo permette la ricostruzione dell'antico mercato
Il mercato dell'Antica sino alla fine del '700 di Giorgio Botarelli |
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Tre
erano le località del Vescovado di Murlo dove si teneva mercato
in tempi antichi: Montespecchio, La Befa e Tinoni. L’eremo
agostiniano di Montespecchio, compreso una volta nella Comunità
di Resi, nonostante la sua impervia ubicazione, era frequentatissimo
nei giorni festivi, quando gran numero di popolo vi giungeva da
Vallerano, da Casciano, da Montepescini e anche da paesi più
lontani. Lo stesso accadeva per la festa di S. Maria, occasione di una
grande fiera. Poi, nel 1686, i religiosi agostiniani lasciano
l’eremo, ormai in rovina, per trasferirsi nella parrocchia di S.
Cecilia a Crevole e quel luogo viene abbandonato per sempre. Alla Befa
- parte della Comunità di Montepertuso, comprendente anche
Pompana - accorreva molta gente, sia per la festa annuale che la
compagnia de’ Celesti organizzava nel terzo giorno dopo la
Pentecoste, sia tutte le settimane, di lunedì, quando nel
minuscolo villaggio si teneva il mercato. Intorno alla metà del
‘700, questo risulta soppresso - molto probabilmente a causa del
progressivo spopolamento della zona - ed il solo mercato che
all’epoca regolarmente si svolge nel comprensorio della signoria
vescovile, è nella piazza dell’Antica dove era stato
trasferito quello che in passato si faceva nel vicino, ma ancora
separato, borgo di Tinoni. La piazza meglio si prestava ad accogliere
tale manifestazione, alla quale partecipavano, oltre agli abitanti di
tutto il Vescovado, molti provenienti dalla Val d’Arbia. Aveva
luogo ogni mercoledì e, se cadeva di festa, si faceva il giorno
prima o quello dopo. Sulla piazza si affacciava una stanza,
proprietà della Comunità di Murlo - costituita allora da
Murlo, Antica e Tinoni - utilizzata come cancelleria, dove il vicario
arcivescovile, il giorno di mercato, dava udienza a chi la richiedesse
e sulla porta della quale venivano affissi, sempre in quel giorno per
darne la più ampia diffusione, i bandi, i comunicati o le
deliberazioni dell’arcivescovo, del vicario e degli organi
amministrativi locali. Fra le variegate norme e leggi che formavano il corpus
giuridico degli antichi statuti del Vescovado e alle quali si erano
aggiunte, nel corso dei secoli, quelle dei numerosi bandi emanati via
via dagli arcivescovi, ce n’erano diverse che regolamentavano il
mercato sotto molteplici aspetti. Prima fra tutte e anche di evidente
rilevanza per la comunità, la disposizione che rendeva il
mercato libero, cioè
al suo interno non poteva essere eseguita la cattura di chiunque avesse
contratto debiti al di fuori di esso e nemmeno poteva essergli
sequestrata o confiscata alcuna merce: una sorta di immunità che
si estendeva anche al giorno precedente e a quello dopo. Per mantenere la libertà del mercato, ossia per evitare che soldati o chi per essi, di Siena o di altri paesi vicini, potessero infrangere tale norma ed eseguire quindi arresti per debiti - ma forse anche per meglio vigilare sulla comunità - l’arcivescovo Francesco Bandini (1529-1588) aveva istituito nel 1572 una specie di corpo di guardia, agli ordini del vicario, che nei giorni di mercato doveva sostare davanti alla cancelleria e per il quale aveva fatto costruire lì davanti, un loggiato, costato 24 scudi d’oro (a metà ‘700 il loggiato era stato demolito e i soldati non c’erano più). L’arcivescovo Ascanio Piccolomini (1588-1597), successore del Bandini, dichiarava: quelli che vengono al mercato debbono accarezzarsi, cioè non dovevano essere ostacolati nei loro commerci e tantomeno essere maltrattati. Lo stesso redarguiva il suo vicario Aurelio Aureli da Perugia (1588-1591) che aveva sequestrato il cavallo a uno durante il mercato e gli ordinava di restituirlo senza fargli spendere niente perché questo signore non abitava più nel Vescovado da diversi anni e perché il suo creditore non era lì residente. In somma, il mercato ha da essere privilegiato dalle esecuzioni di cause civili, perché può giovare al particolare e nuocere all’universale, ribadiva avvedutamente il Piccolomini, considerando che l’arresto di qualcuno per debiti avrebbe forse permesso al creditore di essere in qualche modo soddisfatto ma nel contempo avrebbe portato pregiudizio al normale svolgimento del mercato, che costituiva fonte essenziale di approvvigionamento dello stretto necessario e anche opportunità di modesti introiti per tutti i residenti nel Vescovado e non solo. L’area destinata al mercato era ben definita e delimitata da alcuni segni bianchi e rossi tracciati sui muri ed era proibito vendere o comprare al di fuori di essa. Chi contravveniva a questa regola, era soggetto al pagamento di un testone e alla confisca della merce, come stabilito dall’arcivescovo Bandini nel 1579; sanzione arrivata a 25 lire nel 1635 con l’arcivescovo Ascanio II Piccolomini (1628-1671). Un treccolone di Siena - uno che acquistava pollame e altri animali da cortile, cacciagione, uova, formaggio e salumi nel contado per rivenderli in città - aveva comprato all’Antica un mazzo di tordi fuor de’segni in giorno di mercato e per questo era stato condannato a pagare appunto 25 lire. La compravendita ed ogni altro tipo di contrattazione dovevano avvenire solo dopo il suono della tromba e voce del publico banditore, aveva decretato nel 1685 l’arcivescovo Leonardo Marsilii (1682-1713) e per i trasgressori c’era la pena di 10 lire per staro di robba e la confisca della medesima da eseguirsi de facto. In un bando del 1652 l’arcivescovo Ascanio II Piccolomini aveva espressamente proibito a qualunque persona non suddita di portare armi nel giorno di mercato, con la pena della confisca dell’arma, più 25 scudi d’oro da pagare per il porto di terzette e pistole, 10 scudi per il porto di archibugi. Agli abitanti del Vescovado, fin dai tempi dell’arcivescovo Bandini (1570), era proibito portare in giro qualsiasi tipo di arma, con pene per i contravventori che potevano arrivare alla somma di 50 scudi d’oro e alla somministrazione di tratti due di corda; il porto d’armi era invece concesso a chiunque momentaneamente transitasse per quel territorio. In occasione del mercato, i forestieri avevano tuttavia facoltà di lasciarle nelle botteghe del villaggio e riprenderle alla loro partenza, senza però trattenersi a lungo nel Vescovado. Misure precauzionali che non evitavano il verificarsi di sporadici atti di violenza, come nel caso di uno, condannato al pagamento di 25 lire per aver insultato e preso a pugni in giorno di mercato un venditore per non avergli voluto vendere a quanto egli offeriva (vicario Giovanni Antonio Mattei, 1690-1694) o, peggio, di un altro al quale era stata raddoppiata la pena per un delitto commesso al mercato (vicario Marcello Severi di Torrita, 1636-1639). In ordine alle modalità di vendita ed in particolare a quelle di pesatura delle merci, gli antichi statuti del Vescovado disponevano che chiunque vendesse a peso, dovesse usare misure e pesi diritti cioè conformi a quelli del Comune di Siena: …e se alcuno con le misure non diritte, con pesi non diritti, misurerà o pesarà, secondo, che è detto nel mercato di Befa, o di Tinoni, o ne la Festa di S. Maria di Montespecchio del Vescovado di Siena… sia condannato per ciascuna volta in soldi 10 di denari. Nel 1570 l’arcivescovo Bandini aveva ordinato di non vendersi con staro e misura non marcata e aggiustata dall’uomo deputato in Vescovado, con la pena di 4 lire per ogni operazione fatta e la perdita dello staro o misura. Ciascuna comunità del Vescovado era tra l’altro obbligata a tenere come campioni, uno staro, una sua metà, una statera e una misura conformi a quelli del Comune di Siena in maniera che si potessero controllare gli analoghi strumenti usati da mercanti, osti, macellai, pizzicaioli, trafficanti e venditori in genere. Nel 1635 la pena per i contravventori era elevata a 25 lire, sempre con la confisca degli stari o misure non conformi. La vendita con stari, pesi o misure fasulle non era comunque la sola frode tentata dai commercianti: durante il vicariato di Pier Anton Pascucci di Torrita (1710-1721), venne processato un certo Gagnoni che al mercato si arrangiava vendendo grano bagnato. |
Già nei primi anni del ‘700, chiunque veniva a vendere al mercato, doveva pagare un dazio sulla merce al Proventiere della Piazza.
Quest’ultimo era colui che si era aggiudicato in asta pubblica,
contro compenso alla Comunità, il diritto esclusivo di
incamerare la tassa riscossa in quel giorno (il Provento della Piazza)
ed aveva il compito di vigilare sulla regolarità delle
operazioni di compravendita nonché l’obbligo di denunziare
al vicario i prezzi che sono corsi della roba da macina in ciascun giorno di mercato. Il Provento della Piazza veniva appaltato ogni tre anni ma succedeva anche che venisse conferito ad personam per grazia dell’arcivescovo. La comunità forniva al Proventiere due stari di ferro - da restituire alla fine dell’incarico - per utilizzarli nelle vendite della roba da macina, esigendo un quattrino per staro.
Flagello dei mercati, si sa, sono i borseggiatori e ovviamente non mancavano nemmeno a quello dell’Antica, confermandoci così che era un mercato molto affollato. Nel 1626 un borsajuolo che aveva rubato 8 lire, fu catturato e condannato dal vicario Paolo Marianelli (1622-1626), prima, ad essere frustato in pubblico nel giorno di mercato e poi alla berlina, cioè costretto ad andare e venire da Tinoni per tre volte con mitra in testa ed un cartello al collo con su scritto il suo nome e il reato commesso; infine, esiliato a beneplacito dell’arcivescovo con possibilità della galera se non avesse rispettato la pena. Lo stesso successe in seguito, nel corso del vicariato di Giovan Maria Benaj di Radicofani (1750-1759), quando un’altro borsajuolo fu condannato alla frusta in giorno di mercato e poi alla berlina, dovendo girare nella piazza con mitra in testa ed epitaffio per ladro di borse. Anche lui fu quindi esiliato: nell’arco di circa centotrenta anni, la pena per i borseggiatori, certo non lieve, era rimasta più o meno la stessa. E con le medesime norme e regole, a parte qualche aggiornamento nelle sanzioni pecuniarie, il mercato dell’Antica continuò a svolgersi sino alla fine del ‘700, quando, conclusosi con il 1777 il plurisecolare periodo di dominazione vescovile, il territorio di Murlo era ormai entrato a far parte a tutti gli effetti del Granducato di Toscana sotto i Lorena. Nel dicembre del 1792, in esecuzione di un motuproprio granducale, per il mercato nella piazza dell’Antica viene emanato un nuovo regolamento che stabilisce una rigida assegnazione dei posti ai venditori dei vari generi di merci, ponendo fine, in questo modo, al precedente disordine. Il regolamento fornisce una parziale indicazione sulle merci offerte nella piazza, fra le quali sono naturalmente presenti - e lo dovevano essere in parte preponderante - i prodotti dell’agricoltura e dell’orto, eccedenze di quelle attività che erano la risorsa principale della quasi totalità della popolazione del Vescovado. Ma ci sono in vendita anche piccolo bestiame e manufatti artigianali; inoltre, le botteghe che si affacciano sulla piazza, oltre alla Canova e all’Osteria, vanno di sicuro ad integrare il mercato con l’offerta dei loro prodotti all’esterno del locale. Le contrattazioni sono permesse solo entro il perimetro della piazza che, nel regolamento, è individuato con precisione dalle case che la delimitano, coi nomi degli allora rispettivi proprietari e rimasto più o meno lo stesso fino ai nostri giorni. Entrando dalla parte di tramontana (Via di Pizzicheria), subito sulla destra, lungo la casa che apparteneva a Baldassarre Bellacchi, era stabilito il posto per i sacchi di grano e biade ed altri generi di staia (cereali, legumi, granaglie in genere e tutto ciò che si vendeva a staia). Di fronte, dalla parte opposta della piazza, davanti l’abitazione del Sig.re Giuseppe Vallesi, era il posto per erbaggi e fortumi (ortaggi, spezie e i cosiddetti “odori”). Sulla destra, presso la casa di Giuseppe Rossi - probabilmente in fondo all’odierna Via del Gallinaio, nello spazio aperto verso la campagna che doveva esserci prima che venisse costruito l’edificio che oggi separa la piazza da quella via - stavano gli animali neri soliti a venire a vendersi in detto mercato e piazza. Poi, proseguendo il giro, sul fabbricato che ora si affaccia su Via del Gallinaio ma che allora era prospiciente alla piazza, presso una casa di proprietà del Nobil Sig.re Giulio Spannocchi, si trovavano vasai (venditori di terrecotte smaltate e non, essenzialmente per uso domestico) e coronai (venditori di corone del Rosario). Ancora sulla destra c’erano: la Canova, tenuta a linea da Francesco Muzi e l’Osteria, tenuta a linea dai fratelli Sforazzini; presso quest’ultima - che doveva essere ubicata all’angolo con l’attuale Via Marconi - dalla parte della piazza era il posto dei fruttami (frutta fresca e secca). Le stanze occupate da canova ed osteria erano proprietà della Comunità di Murlo che le concedeva a linea per l’esercizio di queste due attività (cioè le dava in uso dietro pagamento di un canone annuo con il beneficio del trasferimento automatico della concessione agli eredi in linea diretta). Prima del 1778, durante il periodo della signoria vescovile, i Proventi della canova e dell’osteria, come abbiamo già visto per quello della piazza e come succedeva per le altre attività economiche (macello, pizzicheria, oliviera, cenceria, castagneria, ecc.) venivano appaltati ogni tre anni in asta pubblica oppure concessi per grazia dell’arcivescovo. Al solo Proventiere dell’Osteria era concesso dar da mangiare e bere a pagamento nella comunità così come al solo Proventiere della Canova era permesso spianare e vendere il pane. Nel centro della piazza, vicino al pozzo, era il luogo assegnato a pollami (animali da cortile oltre ad uccellagione e selvaggina) e ova mentre ogni altro genere di merci poteva essere venduto negli spazi rimanenti senza confondere i posti come sopra descritti ed assegnati. Fra queste merci, anche se non evidenziate nel regolamento, non potevano mancare altri prodotti della campagna e del bosco, come legname, fascine, carbone, paglia, fieno, oppure, in autunno, castagne crude o cotte; prodotti dell’artigianato locale e di quello domestico, dagli utensili per uso agricolo o casalingo, come zappe, vanghe, asce, coltelli, chiodi, aghi o candele alle barcelle e ceste di vimini o gabbie per trasportare animali fino alle telerie, panni di lana, mercerie, cuoiami, cappelli e calzature; prodotti dell’allevamento rurale come formaggio e salumi, oltre a vino ed olio. Con l’entrata in vigore del regolamento granducale, il mercato settimanale dell’Antica rimase ancorato al mercoledì e l’inizio delle compravendite continuò ad essere sempre al suono della tromba, che sarà secondo l’antico costume nell’ora di Mezzogiorno (intorno all’alba, considerando l’inizio del giorno al tramonto del sole, secondo l’uso dell’epoca). Questo sino alla fine del XVIII secolo. Oggi il mercato non si tiene più in quella piazza e la stessa ha perso l’aspetto “vissuto” di una volta, essendosi dovuta adeguare a sopravvenute esigenze funzionali dei tempi moderni: purtroppo, certe trasformazioni oggi ritenute impellenti e inderogabili, finiscono spesso per alterare la natura originaria dei luoghi tanto da cancellare del tutto e per sempre ogni traccia d’antica memoria. >>>OOO<<< Le notizie sul mercato dell’Antica fino al 1778 sono tratte da Una Signoria nella Toscana Moderna di M.Filippone, G.B.Guasconi, S.Pucci, Siena 1999. Il documento concernente il nuovo regolamento per il mercato, datato 20 Dicembre 1792, è presente all’Archivio Storico del Comune di Murlo, Atti Magistrali ed altro dal 1790 a tutto Ottobre 1798, n.71. |
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Il mercato dell'Antica nel 1792
(disegno di Luciano Scali) |
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