MURLOCULTURA
n. 5/2005 |
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Prosa e Poesia di Mario Martelli |
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Prosa
e poesia risalgono esattamente a quarant'anni fa, quando Vescovado e
Murlo erano profondamente diversi: quando cioè lungo la strada
si vedevano le bambine che guardavano i maiali, quando le fanciulle
erano umili ed aspiravano ad umili amori, quando, soprattutto, io
stesso ero - ripeterò col Petrarca - altr'uom da quel ch'i'
sono. La poesia è inedita, la prosa uscì su una rivista
di allora. Credo che siano gli ultimi tra gli scarsi miei prodotti di
poesia e di prosa, diciamo così, creativa. Poi non ho scritto se
non di storia della letteratura. Mario Martelli
SERA D'APRILE A MURLO
di Mario Martelli E quest'anime sperse, questi vecchi Che risalgono attenti Nella tenera luce del tramonto Alle case librate sul muretto, Abbagliate di luce, Protese nude sopra la vallata; Queste fanciulle adorne d'un sorriso, Che nelle gambe più carnose appena Di quelle delle madri Portano ancora un'umile promessa Di spasimi d'amore - Queste vite perdute lasceranno A una lapide pallida di tempo, Allineata all'altre, fra due date La loro dolce storia di dolore. IL MALE DI MURLO Si discende, nella dolcezza del
tardo pomeriggio, verso la Valdarbia. E già, lasciando le alture
di Siena, il paesaggio si fa irreale. La curva tenera dei colli, che
s'alza senza fatica dal piano; l'antica malinconia d'immote bambine,
che sorvegliano il branco dei porci nel campo che costeggia la strada;
il pallore incupito delle case, che qua e là si adagiano al
colmo di una piega nel terreno: neanche ora, di giugno, la campagna sa
qui scoppiare di vita; e tutto quest'oro del grano sembra, esso stesso,
cancellare i contorni delle cose, quasi la terra, vinto il suo peso,
cercasse di dissolversi nella fine polvere di questa luce spirituale.
Sono le pause nel perenne fluire di noi stessi, i rari attimi immuni dalla morte che sempre si attacca alla vita, i momenti di grazia promessi e non concessi, di quando in quando, a ciascuno di noi. Torna alla memoria Montale: «Paese di ferrame e alberature /A selva nella polvere del vespro». Dopo la lunga assenza, una sera fra l'altre, egli poteva sentire ancora vicina, se non presente, la sua arcana amante e scorgerne la traccia nel formicolìo del porto. Oggi la sua e mia amante, la nostra amante, come se fosse ricomparsa dal nulla e, all'uscita di Siena, la sua presenza si fosse fatta improvvisamente avvertire all'affacciarsi su questa valle dorata, ritorna qui a visitarmi e a sfiorarmi colla sua mano immateriale, ora che il sole, non più lontano ne ancora vicino all'orizzonte, si ferma nel cielo. Le cose qui non hanno dolore, o il dolore è divenuto un'abitudine antica. La vita doveva far male molti secoli addietro, col suo carosello di speranza e di timore, di ansiose felicità e di forsennate disperazioni: non ora che gli uomini hanno imparato ad accogliere la legge, cui non si può ribellarsi, e a reclinare il capo di fronte ad essa. Così, il rodere del tempo che sgretola gli angoli dei muri e incupisce le pietre delle case; la schiavitù del lavoro che costringe perfino i bambini, avvolti in abiti senza tempo, a restare fermi per ore sul margine della strada; le tracce dell'opera umana che pur qui si scorge nei filari di viti o nei campi di grano; non sono più che un tenuissimo velo, di là dal quale sembra di vedere la luce diffusa di un giorno continuo ed immobile, che noi ci ostiniamo a credere essere stato (chissà quando?) la nostra vita più vera. Dietro quei colli c'è Vescovado di Murlo. La strada, non ancora asfaltata, sale girando a volte su se stessa e seguendo docile la curva dei rilievi a pan di zucchero, fra prati sbiaditi ed umili olivi. Vescovado non appare alla vista finché già non siamo nel silenzioso paese. Di lì, messa per caso quasi al sommo di un colle, si scorge Murlo: la chiesa ed un gruppo di case, come abbracciate le une alle altre nell'azzurro unito, senza fulgore del cielo. Murlo ha perduto davvero ogni vestigio di materia e sfuma nell'aria, quasi solo per un miracolo restasse ancora attaccata alla terra, di cui si direbbe che niente più la riguardi. E’, tutt'intorno, un paesaggio che s'insinua lentamente nel cuore. Ci vogliono anni a capirlo e a sentirlo. Niente, in giro, che faccia colpo allo sguardo con tratti netti o colori decisi. La linea di un poggio scompare nel seno di un altro poggio, il colore di un prato si perde nel pallore di un altro. È una bellezza dimessa e sfumata, che si avverte solo quando, quasi senza accorgersene, si comincia a vivere anche noi in questa dimensione di rarefatta lontananza. Ne qui il sole batte mai colla ferocia implacabile di altri cieli: dalle cose stesse si effonde questa luce invisibile, che illumina e non offende. Forse si alterneranno anche qui estati ed inverni, ma il caldo ed il freddo hanno lasciato il posto a non più che al loro ricordo: tutta la vita, anzi, ha lasciato il posto al ricordo della vita. O, piuttosto, all'apparenza della vita. Lo avverte il cuore, d'un tratto; ed è su questa scoperta che rampolla il dubbio ed una sensazione sottile di sazietà. Tutto è qui inafferrabile. Ti avvince e ti delude. Ben te ne accorgi, se vi prolunghi la sosta per qualche giorno. Quest'isola d'Alcina non riesce a saziare la nostra fame, la fame di noi uomini fatti di carne e di sangue. Se ti avvicini al colle che credevi di scorgere in lontananza, ecco che perde i suoi contorni e pare disfarsi nel nulla; il rilievo, che pure si distacca dal fondo della valle, se i tuoi piedi si avvicinano, non è che una blanda increspatura, l'onda alzata dalla brezza, il sospiro che per un attimo ha sollevato il gracile petto di questo sperduto angolo di terra. E la luce, questa impalpabile luce di Murlo, scivola sulle cose senza distaccarne ombra alcuna e s'insinua negli angoli più riposti. È l'ora di Murlo, il tardo pomeriggio, l'ora che anche altrove ignora le cupe ombre e i contrasti violenti. È questo il dolce veleno che sempre, da undici anni, si spande dentro di me, tornando a Murlo: ed è come quando, nel dormiveglia, non riusciamo, con un senso d'impotente dolore, a muoverci. Dall'assenza di morte affiora la morte. La morte è intorno a me, in me, in questa innaturale quiete delle ambizioni, in questa rinuncia o incapacità alla lotta, che, mentre mi assale, me le fa estenuatamente, disperatamente rimpiangere, come unico senso dato alla vita. Da una parte, questo morbido attutirsi dei rumori, questo inavvertibile sfumare nel niente; e, dall'altra, la risorgente, domestica volontà, per tornare a sentirmi vivo, di scontare il mio debito di sofferenza e di felicità. L'immagine vera, il male segreto che leva da Murlo il pulsare del sangue, si vede soltanto ora. Nel sentiero che si inerpica verso il borgo, incredibilmente dritto, quasi volesse salire fino al ciclo, non si ode il passo delle rare persone. Le case in alto, librate sul muretto, coi vetri incendiati da un ultimo guizzo del sole e gli umili gerani sul davanzale, si protendono nude verso la vallata. Anime sperse. Sotto di me, un vecchio, ombra silenziosa, raccoglie senz'ansia pezzi di legna nell'orto ancora umido dell'acqua versatavi a secchi; l'uomo che sale assorto il pendìo (e sulle sue spalle non gravano solo i suoi anni, ma quelli degli avi, di una lunga teoria di generazioni, che sempre, a sera, s'incamminarono lentamente per quest'erta) non ha più espressione nel volto, ne il trepidare del desiderio, ne il contrarsi della delusione: stanco, sì, di una stanchezza di secoli; e la fanciulla, che nelle gambe, più tornite appena di quelle della madre che le cammina al fianco, porta ancora un'umile promessa di spasimi d'amore, non avrà vita più lunga di questa promessa. In queste anime sperse è l'anima vera di Murlo: lo sento in questa dolcissima storia di dolore non vissuto, unica, anche se diversa, e perennemente ripetuta, che, taciuta fra due date, viene da sempre e per sempre verrà abbandonata di anno in anno alle basse lapidi, allineate le une alle altre, del piccolo cimitero. MARIO MARTELLI
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