MURLOCULTURA
n. 5/2008 |
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di Luciano Scali
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Ogni volta che mi accingo ad affrontare l’argomento “Crevole”, debbo fare bene attenzione alla persona che mi trovo davanti per riuscire rapidamente a capirne le reazioni. Accadrà di trovare il curioso a cui interesserà la storia, oppure il misterioso affascinato da eventi occulti che si possono immaginare dietro agli imponenti ruderi rimasti; il sospettoso portato a credere a possibili interessi da realizzare sulla memoria dei tragici eventi del passato, e infine l’affarista che ambirebbe mettere le mani su quel sito per sgomberarne le rovine e destinarlo ad un più moderno luogo di accoglienza. Il villaggio di Crevole è morto da un pezzo, da quando lo Sforza ne diroccò le mura decretando la fine di un’epoca. Il saccheggio degli imperiali fu devastante ma rapido; le soldataglie s’impadronirono di quanto potevano trascinarsi dietro, il tempo e gli abitanti del luogo fecero il resto. Nell’articolo all’interno, Giorgio Botarelli, avvalendosi di documenti dell’epoca, rende noti eventi finora sconosciuti che evidenziano lo spaccato di un tempo in cui due stati contrapposti della comunità si trovarono stranamente uniti nell’opera di spoliazione di quella che fu la più prestigiosa residenza del Vescovo di Siena in territorio di Murlo. L’ambizione, in alcuni personaggi, di far risaltare il rango sociale acquisito attraverso un raggiunto benessere, ed il bisogno di sopravvivere in altri, andarono di pari passo nel compiere determinati atti, ma come inevitabilmente accade furono i poveri e i non protetti a subirne le maggiori conseguenze. Con tale premessa non è mia intenzione impiantare un processo a chi combinò qualche guaio in tempi remoti poiché qualcun’altro ci pensò a tempo debito, ma piuttosto a richiamare l’attenzione del lettore su avvenimenti che inevitabilmente si ripetono come il susseguirsi delle stagioni. A nulla valsero bandi, processi e pene inflitte poiché le spoliazioni sono continuate fino ai giorni d’oggi e chissà per quanto tempo continueranno ancora. Allorché un luogo viene abbandonato diviene quasi subito cava di materiale pregiato e niente di più facile che qualche “pietra concia” facente parte di una poderosa muraglia, possa essere finita in una scala, oppure in un caminetto o addirittura nella cantonata di una palazzo più o meno pretenzioso nei dintorni o nel paese vicino. Se durante i nostri spostamenti quotidiani riuscissimo a percepirne il linguaggio chissà quante di queste pietre chiederebbero di ritornare nel luogo d’origine se non altro per contribuire a ridonargli l’identità perduta. Durante la seconda guerra mondiale il ponte sul Crevole tra Vescovado e Casciano fu distrutto e per la sua ricostruzione venne usata gran copia delle pietre della rocca che ben si adattarono a quel diverso tipo di manufatto. Chi vi lavorò ricorda che furono allestite “canale di tavole” per farle agevolmente scivolare laddove venivano impiegate. Nessuno si scandalizzò più di tanto poiché, in fin dei conti, si trattava di un’opera di pubblica utilità e “lassù” quelle pietre non servivano a nessuno. Così ragionando, un patrimonio storico culturale di grande importanza, si polverizza, ma non soltanto Crevole, Montespecchio, la torre di Resi, la rocca di Montepertuso, Pieve a Coppiano, Santa Margherita e tante altre ancora, ma anche poderi e casolari sparsi lasciati temporaneamente incustoditi. Quale morale trarre da tutto questo? Arrendersi alla inevitabile caducità delle cose del mondo a causa del tempo che scorre, oppure, visto che sono in molti a dargli una mano nella sua opera disgregatrice, abrogare anche il settimo comandamento che tra sofismi, distinguo e sottili leggi ad hoc è stato del tutto o quasi declassato divenendo addirittura motivo di merito per chi lo usa con lo scopo di non apparire più fesso di tanti altri? Difficile pronunciarsi in merito tanto più che per questa malattia endemica sembra non esservi rimedio ed anche a domandare attorno, l’unica risposta possibile può essere del tipo: “E che vuoi farci… è sempre stato così!” Provare per credere! |
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