MURLOCULTURA n. 5/2008

 
Cronaca della spedizione scientifica Highcare 2008 sull’Hymalaia

 
Una ragazza murlese
sul tetto del mondo

 di Carolina Lombardi e Gianfranco Parati

Associazione Culturale di Murlo
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Chi l’avrebbe mai detto! Eppure talvolta i sogni finiscono per avverarsi, magari sotto forma di spedizione scientifica alla ricerca di un qualcosa che il profano non riuscirebbe mai a immaginare. Cose che si nascondono nei meandri più profondi della mente e dei quali non se ne conosce l’esistenza ma che riescono a condizionare il carattere e i comportamenti delle persone. “E c’era proprio bisogno di andare in cima ai monti più alti del mondo per scoprire quello che uno nasconde dentro alla testa?” Sembra proprio di si e lo dimostra il fatto che Carolina Lombardi non c’è andata da sola ma insieme ad una numerosa equipe di tecnici, affiatata e dotata di larghi mezzi per giungere allo scopo prefissato. Siamo contenti ed orgogliosi che una ragazza di Murlo abbia avuto l’opportunità e i requisiti per partecipare a una così prestigiosa avventura ove non si trattava di recarsi in un luogo affascinante solo per diporto, bensì per acquisire nuove conoscenze con esperimenti che altrove sarebbe stato impossibile effettuare.

 

Spedizione Highcare sull'Everest
Tutto è iniziato ai primi di Settembre con una pacifica a coloratissima invasione dell’aeroporto internazionale di Malpensa a Milano. In realtà il lavoro di preparazione della spedizione HIGHCARE era iniziato molto prima ed è arrivato a concretizzarsi dopo quattro anni dai primi progetti fatti scendendo dalle pendici del Monte Rosa, dove avevamo condotto una serie di esperimenti in Capanna Margherita. Già allora l’Hymalaia era nei nostri sogni, ma solo passo dopo passo, attraverso più di un anno di lavoro preliminare e una serie infinita di difficoltà e imprevisti, stavamo realizzando in aeroporto, sommersi dai nostri borsoni rossi, che l’avventura vera cominciava...

Dopo quasi 11 giorni di viaggio in progressiva ma calibrata salita, i 49 partecipanti alla spedizione scientifica HIGHCARE (High Altitude CArdiovascular Research), accompagnati dai portatori sherpa e da una mandria di yak dalle lunghe corna e dal pelo variabilmente sviluppato, hanno raggiunto il campo base dell’Everest sul versante nepalese (data l’impossibilità per gli occidentali di utilizzare il versante tibetano per i noti problemi politici con la Cina). Attrezzature professionali da alpinismo per altissima quota e strumenti scientifici tra i più sofisticati e innovativi, necessari per studiare la fisiologia e fisiopatologia umana sopra i cinquemila metri, sono stati portati da Milano sino alla quota di 5400 m, alla base dell’Everest, con i mezzi di trasporto più vari. Dai Modernissimi jet quali l’Airbus A340 o il Boeing 777 agli autobus sferraglianti e scalcinati. E poi i piccoli e datati aeroplani ad elica, che solo un benevolo occhio divino ha aiutato a volare bucando a vista nuvole dense.... E’ un volo che nessuno dimenticherà più nella vita, si sorvolano le vallate vedendo in lontananza la catena hymalaiana, ti senti accarezzare i piedi dai fiumi sinuosi e trattieni il fiato fin quando non senti che, incredibilmente, l’aereo è fermo, sei sano e salvo sulla cortissima pista di atterraggio di Lukla, a 2800 mt, compressa tra uno strapiombo e una parete di roccia verticale.

Nuova tappa... nuovo mezzo di trasporto! I mastodontici elicotteri militari russi, su cui siamo saliti di corsa come una vera truppa da sbarco, che ci hanno aiutato a spostarci ancora più in alto, a Namche Bazar (3500 m s.l.m.).

L’ultimo pezzo, quello più duro, sarebbe stato poi impensabile senza l’aiuto degli yak e di quel popolo meraviglioso degli Sherpa tibetani. La carovana si estendeva a perdita d’occhio lungo la valle del Kumbu, ed era composta oltre che dai 49 membri del team internazionale anche da oltre 200 portatori carichi della strumentazione e da decine di Yak.

Il 21 settembre, la spedizione raggiungeva le tende del campo, frettolosamente e approssimativamente rimesse in piedi, nell’arco di 24 ore, dopo essere state abbattute dal poderoso spostamento d’aria causato da una gigantesca valanga caduta a poche centinaia di metri. Il giorno dopo, 22 settembre, il campo base dell’Everest era attraversato da una frenetica attività. Medici (cardiologi, internisti, neurologi, neuropsicologi, ematologi, endocrinologi), ricercatori, dottorandi, specializzandi, studenti, infermieri, ingegneri, guide alpine e semplici volontari erano tutti impegnati a togliere le attrezzature dai sacconi e dalle valigie ipertecnologiche -a prova di urto e umidità- portate dagli sherpa e dagli yak.  Venivano attrezzate oltre alla piccole e gialle tende a igloo personali, anche le tende laboratorio blu intenso, e la tenda laboratorio-soggiorno a geode arancione, dando forma sul ghiacciaio ad un colorato villaggio “highteck”.

Qui avrebbe operato per quasi due settimane la imponente spedizione HIGHCARE 2008, organizzata dall’Istituto Auxologico Italiano in collaborazione con l’Università di Milano Bicocca, e patrocinata dalla Regione Lombardia (Assessorato Sanità) e dal CAI (Club Alpino Italiano). L’obiettivo era studiare gli effetti dell’ipossia ipobarica sul corpo umano, facendo uso di costosissimi contenitori a tenuta per l’azoto liquido, necessario a conservare i numerosissimi campioni di sangue prelevati ad una temperatura di -80 gradi per successive analisi di proteomica e genomica, e utilizzando attrezzature moderne o addirittura sperimentali per la raccolta di dati cardiorespiratori e neurologici. Tra queste le magliette MagIc, con inclusi sensori indossabili in fibre di tessuto conduttore, appositamente studiate per effettuare registrazioni continue di ECG e frequenza cardiaca, attività respiratoria e movimenti del corpo sia durante il sonno in tenda, sia durante la scalata. Non mancavano poi registratori portatili per le polisonnografie, per il monitoraggio in continuo dei parametri vitali quali pressione arteriosa e frequenza cardiaca sui volontari, per gli ecocardiogrammi e per la rilevazione della rigidità arteriosa.

Il tutto tra notevoli difficoltà e inconvenienti tecnici, compresa la scarsa performance dei generatori di corrente elettrica a benzina, che poco bruciava in carenza di ossigeno, la difficoltà a garantire un riscaldamento decente alle tende laboratorio per la riluttanza a carburare delle stufette a gas ( più che calore nell’aria emanavano in effetti gas non combusto...), e la progressiva moria di computer portatili, il cui disco rigido andava in blocco, uno dopo l’altro, per la bassa pressione atmosferica, come si legge sul diario on-line aggiornato sul sito www.highcare2008.eu.

L’importanza e l’unicità di questa spedizione era stata sottolineata durante la sosta del gruppo a Kathmandu dall’ottantaseienne lady britannica Elizabeth Hawley, forte della sua pluridecennale esperienza come certificatrice e testimone storica vivente di tutte le spedizioni Himalayane fatte sino ad ora. Mrs Hawley aveva definito la spedizione HIGHCARE 2008 “la più grande spedizione scientifica mai organizzata sull’Everest”. La spedizione HIGHCARE è stata ideata, progettata e realizzata da Istituzioni e ricercatori italiani, ma ha però una solida dimensione internazionale, fortemente voluta dal suo promotore e coordinatore, il Prof. Gianfranco Parati, primario di cardiologia all’Istituto Auxologico Italiano di Milano, e professore straordinario di medicina interna all’Università di Milano-Bicocca. Ricercatori, trekker e alpinisti erano in effetti provenienti non solo da Italia, ma anche da Polonia, Germania, Francia, Svizzera, Stati Uniti d’America e naturalmente Nepal.

La preparazione di questa spedizione si era basata su una serie di ricerche preliminari, condotte per quattro anni in cima al Monte Rosa presso la Capanna Margherita a 4559 m. La sua realizzazione, supportata dall’Istituto Auxologico Italiano e dall’Università di Milano-Bicocca,  è stata possibile grazie a notevoli finanziamenti da parte di sponsor pubblici e privati, tra cui Boehringer Ingelheim Germania e Banca Intesa San Paolo. Il suo obbiettivo consisteva in “uno studio approfondito degli effetti cardiorespiratori, metabolici, ematologici e neurologici dell’ipossia ipobarica prolungata, e nel valutare l’efficacia di interventi correttivi farmacologici e non farmacologici per prevenire e curare il male acuto di montagna e per identificare nuove prospettive terapeutiche per i pazienti affetti da ipossia cronica” come indicato nella presentazione ufficiale sul sito web www.highcare2008.eu. Come sottolineato dal Prof. Parati, queste ricerche “utilizzano l’ipossia ipobarica in alta quota come un modello sperimentale per esplorare la fisiopatologia di alcune malattie croniche connesse con l’ipossia tissutale, quali lo scompenso cardiaco, la malattia polmonare ostruttiva cronica, l’ipertensione arteriosa associata alla sindrome delle apnee notturne e l’obesità severa”. Numerose sono state le novità sperimentate durante la ricerca al campo base e durante il tentativo di ascesa all’Everest. Ricordiamo in particolare la “maglietta” MagIc, un prototipo basato sull’uso di sensori indossabili messo a punto dagli ingegneri del Polo Tecnologico della Fondazione Don Gnocchi di Milano, utilizzata sia per registrazioni dinamiche ECG secondo HOLTER che per polisonnografie notturne soprattutto negli alpinisti che sono riusciti per la prima volta a registrare tali parametri a quote superiori ai 5500 m. Un’altro sottoprogetto riguarda un farmaco comunemente utilizzato per il trattamento dell’ipertensione arteriosa, il Telmisartan, di cui si è voluto testare la capacità di regolare la risposta all’ipossia ipobarica attraverso il blocco selettivo del recettore AT1 dell’angiotensina II.

Il protocollo HIGHCARE 2008 prevedeva la registrazione non invasiva battito a battito di pressione e frequenza cardiaca per studiare la regolazione nervosa dell’apparato cardiovascolare, il monitoraggio della pressione arteriosa per 24 ore, lo studio della attività metabolica, la valutazione della rigidità arteriosa, e lo studio delle caratteristiche del sonno in alta quota, separatamente in uomini e donne che in HIGHCARE erano rappresentati in numero quasi eguale.

Come si legge sul diario HIGHCARE, “inoltre, abbiamo cercato di valutare gli effetti di contromisure non farmacologiche quali la ventilazione meccanica a pressione positiva delle vie aeree (CPAP) e il respiro lento controllato. Abbiamo inoltre poi esplorato la relazione tra le variazioni nei parametri biologici e nei parametri meteorologici quali la temperatura, l’umidità e l’esposizione alla radiazione UV”.

Il gruppo di guide alpine capeggiato da Armin Fisher e Fabio Iacchini si è infine cimentato nel compito di effettuare raccolta di dati biologici alla quota più alta possibile, cercando di raggiungere la vetta dell’Everest. Purtroppo le avverse condizioni meteorologiche, e le continue valanghe che hanno causato feriti nel piccolo gruppo di alpinisti francesi che hanno affiancato HIGHCARE al campo base, non hanno consentito alla spedizione la conquista dell’Everest, ma non hanno impedito raccolta di dati a quote intorno ai 6700 metri.

Terminate le ricerche, sulla via del ritorno, il gruppo di medici e ricercatori milanesi capeggiato dal prof. Parati ha potuto recarsi a Kunde, all’ospedale fondato da Hillary a sostegno della popolazione della valle (circa 8000 persone), a cui sono stati donati i numerosi farmaci non utilizzati nel corso della spedizione. E’ stata poi visitata la scuola elementare di Namche Bazar, frequentata da circa 90 bambini dai 4 ai 10 anni, a cui è stato donato il sofisticato sistema di pannelli solari e invertitori di corrente elettrica utilizzato da HIGHCARE al campo base dell’Everest, che permetterà alla scuola di avere energia elettrica quotidianamente durante le ore di lezione. Dobbiamo dire che ciò che abbiamo potuto lasciare in quei luoghi magici non è che “piccola cosa” rispetto a tutto ciò che quei luoghi e quelle persone ci hanno regalato. Ognuno dei partecipanti ha portato a casa qualcosa che niente cancellerà, l’umanità, l’ospitalità, la generosità, la dignità di un popolo che pur vivendo in condizioni climatiche estreme e con pochissime risorse economiche non ha mai risparmiato ad ognuno di noi un sorriso, uno sguardo profondo ed un sostegno impagabile. Ci siamo portati a casa gli occhi dei bambini che gioivano per il semplice regalo di una matita, delle donne che lavoravano per strada, degli uomini che portavano i nostri pesi e che cucinavano per noi.

Ora, tornati a Milano, è iniziata la parte forse più impegnativa e certamente più eccitante dal punto di vista scientifico: la elaborazione e analisi dei dati raccolti, ed ognuno di noi, all’interno dei propri laboratori analizza con entusiasmo i tracciati, portandosi un pezzo di Nepal nel cuore.

Carolina Lombardi, Gianfranco Parati

Università di Milano-Bicocca e Istituto Auxologico Italiano, IRCCS, Milano

 



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