MURLOCULTURA n. 5/2009 | ||
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Di nuovo Montespecchio
di Luciano Scali |
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Ogni
tanto mi vedo costretto a mettere un po’ d’ordine tra le mie cose per
evitare che prendano il sopravvento costringendomi alla fuga dopo aver
ben chiusa la porta di casa e buttata via la chiave. Strano come le
cose si accumulino nelle case di chi vive solo e come questi si scopra
fortemente restio ad affrontarle. Quando poi lo fa si accorge ben
presto di vivere un’autentica avventura ove le scoperte non mancano e
con esse riaffiorano episodi ormai dimenticati. Il mio rapporto col
Conventaccio è di lunga data e il desiderio di scoprire qualcuno dei
suoi segreti non è mai venuto meno. Il vero motivo non lo conosco ma
fin dalle prime notizie della sua esistenza ho avuto la
certezza che avrebbe inciso molto sulla mia vita. Per anni c’è stata
una sorta di andirivieni tra Murlo e il piano degli Altari e per un
lungo periodo questo movimento pendolare si è svolto a piedi attraverso
antichi sentieri che ormai si sono chiusi quasi del tutto. Mi piaceva
farne, ogni volta, qualcuno diverso, quasi inedito per scoprire in
seguito di ricalcare percorsi usati normalmente in passato e poi
divenuti facile preda di un bosco estremamente selvaggio tutto teso a
colonizzare ogni più piccolo spazio scoperto. Anche all’interno della
chiesa, sopra il cumulo delle macerie ricoperte dal terriccio, era
cresciuto un bosco in miniatura con un leccio di una certa consistenza
e arbusti con macchia ovunque, perfino sul coronamento e nelle
spaccature dei muri. Le foto di allora ne testimoniano l’aspetto e
quelle successive: l’evoluzione e gli interventi per rendere i resti
accessibili e fotografabili per intero. La strada riaperta di recente e
munita di pannelli didattici consente di potersi recare all’eremo con
facilità anche se le piogge, neppure tanto copiose, hanno già lasciato
il segno del loro passaggio creandosi percorsi agevoli per scorrere via
in fretta. I ruderi liberati quasi totalmente del loro vestito di
foglie, appaiono meno imponenti di come ce li ricordavamo quasi che la
macchia avesse contribuito, nel nasconderli in parte, a farli
immaginare molto più grandi di quanto non fossero davvero. Purtroppo “la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”
e quasi sempre molte iniziative prese per dare l’opportunità a tutti di
poter ammirare senza eccessive difficoltà quanto resta dell’eremo
agostiniano, riescono poi ad innescare idee e azioni perverse in
qualche solitario visitatore tanto da istigarlo a procurarsi un
souvenir cavando magari qualche pietra dalle pareti sconnesse per
abbandonarla poi nel piazzale o lungo la via del ritorno. Altri, invece
abbozzano scavi senza rendersi conto dei pericoli a cui vanno incontro
specie all’interno della chiesa con la parete SE in equilibrio
precario. L’occhio della macchina fotografica è impietoso, registra
tutto quello che vede senza lasciarsi influenzare dalle emozioni
consentendo, in epoche successive, di effettuare confronti basati sulle
differenze riscontrate e di lasciarsi andare a considerazioni che
talvolta indurrebbero allo sconforto. Anche pochi giorni or sono,
recatomi a Montespecchio per verificare alcuni dati, mi sono accorto “che una pietra non era più al suo posto”.
Non si trattava di un manufatto speciale ma di una pietra squadrata con
un semplice incavo a testimonianza di una funzione ben precisa che io
conosco ma che appena fuori dalla sua sede naturale è divenuta un
rompicapo per tutti. L’ho scorta d’un tratto in quello che fu il
cortile interno dell’eremo, proprio al bordo del fosso e subito mi sono
sentito sollevato. Ormai però i suoi giorni sono contati così come
accadde ad un altro frammento che riuscii a fotografare e rilevarne le
caratteristiche prima che qualcuno lo trafugasse. Credo proprio che
sarebbe il
caso di trovare il modo per conservare in un luogo protetto quei
frammenti più significativi che il tempo o la leggerezza delle persone
ha rimosso dal suo posto per potervelo ricollocare un giorno, allorché
il restauro della chiesa sarà divenuto possibile.
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