MURLOCULTURA n. 5/2009 | ||
---|---|---|
Carrellata
sui mestieri in mutazione di Luciano Scali |
||
|
Agli inizi della rubrica “il Muratore” feci
un’affermazione che ancora oggi ribadisco poiché rispecchiava il modo
di pensare di un tempo. Ci si poteva fregiare della qualifica di
muratore quando si aveva la
conoscenza e la capacità di eseguire qualsiasi manufatto in muratura.
Anche nel passato esisteva il personaggio più abile di un altro, ma si
può essere certi che ognuno di questi, bravo o meno bravo, posto
dinanzi ad un lavoro da eseguire, non si tirava certo indietro. Il
muratore sapeva, all’occorrenza, improvvisarsi carpentiere riuscendo ad
ordire la struttura in legno di un solaio a travi e travicelli, oppure
quella di un tetto su cui porre in seguito i relativi laterizi. Era
capace inoltre a realizzare anche utili manufatti di uso comune senza
ricorrere all’ausilio di specialisti come: realizzare un focolare con
annessi; un camino con relativa canna fumaria oppure un forno e qualche
volta anche un piccolo pozzo e una cisterna. Tutto questo senza aver
studiato, basandosi solo sull’esperienza e l’osservazione. Muratori non
si nasceva ma ci si diventava iniziando, dapprima come ragazzo di
cantiere e poi come manovale. La manovalanza poteva divenire
addirittura mestiere poiché il formarsi di una coppia affiatata
muratore-manovale significava garantire l’esecuzione di un lavoro ben
fatto e in tempi ragionevolmente accettabili. L’aspirante muratore, fin
da quando faceva il manovale, rubava il mestiere con gli occhi cercando di memorizzare quanto vedeva e ben
presto s’impadroniva dei rudimenti di quest’arte. Nel “farsi l’occhio” a rifornire il muratore di quanto occorresse
senza essere continuamente sollecitato, riusciva ad apprendere la successione logica delle
operazioni per eseguire un lavoro. Provvedeva a tenere sempre sgombro lo spazio ove il muratore
posava i piedi, sia che si trovasse o meno sui ponteggi;
riforniva di pietrame (asciutto) per i grossi muri perimetrali, e di mattoni (
bagnati al punto giusto) per i ricorsi di messa a livello, per le
spallette di porte e finestre, e per le morse di cantonata. Anche la malta doveva
essere ben dosata (né troppo magra, né troppo grassa) e sempre della giusta consistenza nel “giornello”. Nel secchio alla portata di mano del
muratore, doveva esserci sempre l’acqua e così pure i tavoloni, il
materiale per approntare i “vaggioli” occorrenti per i “sottopiedi” man mano che il muro cresceva. E poi: le
sottomisure, il regolo, i morsetti, lo “sverzino” e talvolta, anche la gomma coi tubetti
trasparenti per tirare i piani. A
fine giornata il posto di lavoro andava lasciato in ordine, pronto per
il giorno successivo, recuperando il legante caduto e liberandolo dalle
scaglie di pietra e di mattone accantonate per servire da riempimento
nella muratura da fare. Col divenire manovale provetto, si creavano i
presupposti affinché un giorno questi potesse aspirare a divenire un
buon muratore poiché ne aveva appresi i principi fondamentali e gli
mancava solo la pratica. Quando arrivava a cimentarsi con la muratura
doveva acquisire anche “la mano”, sapere come afferrare il mattone, imparare “a scartarlo”, dosare la quantità di malta sulla quale
piazzarlo ed esercitare l’occhio a “traguardare il filo col ricorso” affinché questi vi si allineasse e senza
arrivare “a bruciare l’aria tra i due”. Infine bisognava predisporre morse di
collegamento per rendere solidale il paramento con lo spessore del muro
da costruire. Nella muratura a mattoni, il filo indicava la direzione
del ricorso e, in maniera approssimata anche il livello. Nella muratura
a pietra occorreva “un colpo d’occhio supplementare” consistente nell’individuare nel mucchio, con
lo sguardo, la pietra adatta da collocarsi sul muro senza intervenirvi
troppo sopra, per aggiustarla. Il filo teso per indicare l’andamento
del muro, veniva collocato ad un livello più alto in modo da non
ostacolare la posa in opera della pietra. Per conferire la sufficiente
stabilità e continuità al muro, si procedeva a spianarlo per
sovrapporvi due ricorsi di mattoni opportunamente rinterzati sui quali iniziare di nuovo a costruirvi un
successivo settore di muratura in pietra. Di solito al muratore più
esperto e preciso veniva affidato il compito di “tirare su le cantonate”, perfettamente a “piombo” e a squadra, oppure secondo l’angolo indicato
in progetto (aperto o chiuso) ed anche le spallette più importanti delle
aperture, quelle di solito che dovevano restare “faccia a vista” e che non sarebbero state intonacate. Il
manovale rubava tutto questo con gli occhi e non era raro vedere i più
ambiziosi, cimentarsi “a murare” sotto l’occhio attento del muratore che ne
aveva intuite le capacità di fare e la voglia di riuscire. Talvolta
questa sorta di “didattica” proseguiva a casa propria nel realizzare
qualche lavoro semplice specie se, come spesso accadeva, l’estrazione
dell’apprendista muratore era contadina. Il bisogno è sempre stato un
grande stimolo verso l’apprendimento e, a maggior ragione, quando il
raggiungimento “dell’ambito zinale” stava ad indicare l’inizio di un periodo
durante il quale era possibile guadagnare qualche soldino in più.
Non deve quindi meravigliare se i contadini dei miei tempi riuscissero a tirare su il podere, o qualcuno dei suoi annessi, da soli ricorrendo all’opera del mastro-muratore soltanto nei casi ove non se ne potesse fare a meno come il forno, ad esempio. Oggi di forni sul mercato ve ne sono a iosa; c’è solo l’imbarazzo della scelta. Se ne trovano di ogni foggia e dimensione, ma a bene osservare quelli predisposti per funzionare a legna, per pizza o pane, ci si accorge che il modulo è il medesimo di quelli arcaici di cui ancora oggi è possibile osservarne i resti tra i ruderi dei poderi nelle campagne. Le fornaci di allora sfornavano speciali mattoni refrattari per forni, chiamati “quadrucci” che bene si adattavano a seguire l’andamento sferico della volta del forno, assieme ad altri di grandi dimensioni e spessore detti”quadroni”che servivano per crearne “la platea”. Le tecniche per eseguire un forno si limitavano, di solito a due: con o senza armatura. I mastri più esperti ne facevano a meno e dopo aver trovato il centro del forno sulla platea dello stesso e tracciatone il perimetro, iniziavano la costruzione con i primi tre fili a piombo. La bocca era in funzione dell’ampiezza del forno e del servizio che a questi si richiedeva. Si andava di solito dai 3/4 di braccio (circa 45 cm.) a un braccio (circa 60 cm), specie se nel forno si voleva cuocere, oltre al pane, l’agnello o la porchetta. Dopo il tratto in piombo, veniva iniziata la “cupola del forno” murando i mattoni con leggera pendenza verso l’interno servendosi di “malta bastarda” di calce e gesso e usando come inerte terra refrattaria quando possibile (Fig.1). Fig. 1 - Forno a legna per pane (disegno di Luciano Scali) Fig. 2 - Forno a legna per pane, sezione (disegno di Luciano Scali) Nel fare questo occorreva controllare che il centro dell’anello in costruzione coincidesse con quello della platea. Spostando il bastoncino intorno all’anello, sempre mantenendolo in piombo, si aveva la certezza che le altezze dell’anello stesso dalla platea erano eguali. I resti del forno riportato nella foto A, si riferiscono a quello esistente a Castiglion Balzetti che pur nelle condizioni di rudere evidenti, mostra ancora la sua interessante fattura. Foto A - Il forno di Castiglion Balzetti Era veramente singolare vedere il mastro fornaio costruire il forno poiché, di solito, lo faceva stando inginocchiato sulla platea e quando i due lati gli si chiudevano quasi addosso, provvedeva allora a realizzare la bocca, raccordandovi gli anelli ed eseguendo infine la chiusura (Fig.1). La bocca poteva essere costituita da due spallette ed un arco di chiusura oppure addirittura da un arco a partire dalla platea come mostrano i resti di un forno in rovina a Vallerano (Foto B). Da sopra la bocca prendeva avvio la canna fumaria che in qualche podere attraversava una stanzetta ubicata sopra il forno detta “caldano” dove si ponevano: i panni a asciugare, il pane a lievitare e frutta, semi o pomodori a essiccare. Foto B - Il forno di Vallerano
Nei forni per
pizza eseguiti da specialisti mastri napoletani si usa ancora dare alla
canna fumaria un andamento che lambisca la cupola del forno per
evitare, con un percorso troppo verticale, di favorire una dispersione
eccessiva di calore del forno a causa del troppo tiraggio. Le pareti
esterne del forno venivano coibentate riempiendo il vano con i muri, di
tufo magro oppure, quando
disponibile, di farina
fossile proveniente dai depositi lacustri di Diatomee
di S. Fiora sul Monte Amiata. (17-continua)
|
|
Torna su |