La cella delle meraviglie
Nel risalire la cessa di Monte Moro sotto la pioggia fine, mi sentii osservato. Dal terreno attorno mille occhi mi fissavano, come se esseri sepolti a filo terra tenessero le pupille spalancate su di me. Luccicavano dalla pioggia, né pareva che questa riuscisse a infastidirli. Un fenomeno inatteso da dover spiegare appena trascorso il primo attimo di meraviglia. M’inginocchiai incurante dell’acqua persistente e cominciai a raccogliere quegli occhi: uno, dieci, quaranta... altrettanti sassi divisi, con il nucleo di colore diverso dall’esterno. Chissà come si erano formati e perché solo in quel punto? In breve lo zaino fu rigonfio dalle strane pietre, ma quando giunto a casa le dispiegai sul tavolo rimasi deluso. Pur restando strane come le avevo raccolte avevano perduto il loro fascino. Sembrava rimasto laggiù, sulla costa scivolosa della cessa, incastonato nella terra rossastra ricca d’ossidi di ferro. Solo tra rovi ed astragali e col concorso di fenomeni diversi, “gli occhi” riuscivano a creare un’atmosfera insolita, capace di commuovere ma impossibile da trasferire altrove. N el ginestreto avevo incontrato il cinghiale. La sua presenza si era palesata appena iniziata la cessa, dopo il guado. Ero sopravvento e a tratti mi arrivavano distinte le zaffate “di selvatico”, i grugniti di soddisfazione e il suo masticare rumoroso. Doveva trattarsi di un cibo gradito dal modo in cui lo gustava in tranquillità, ignaro della mia presenza. Nel frattempo la pioggia faceva uno strano rumore sulle ginestre puzzole scompigliate dal vento. Per precauzione avevo impugnata la mazzetta di cui ero munito per spaccare qualche pietra per servirmene se il cinghiale mi fosse stato ostile. Avanzai senza far rumore fino ad arrivargli quasi addosso. Si trattava di un bell’esemplare, non più giovane, con una discreta cr esta e denti poderosi. M’arrestai a pochi passi incerto sul da farsi e fu allora che mi vide. Fece un balzo indietro rischiando di capovolgersi e ruzzolare per la china quindi, appena riacquistato l’equilibrio si lanciò nel bosco dalla parte opposta alla mia. Per qualche minuto sentii il crepitio di rami spezzati al suo passaggio, poi solo il rumore della pioggia. Ram- mento il battito del mio cuore mentre cercavo d’immaginarmi il suo, per il brutto scherzo procuratogli. Ripresi a salire attraversando uno strato orizzontale di terreno da cui affioravano esemplari di selce az- zurrina opalescente. Se avessi dato retta al mio istinto li avrei presi tutti, per farne non so cosa. Erano belli ma estremamente fratturati, da non potersi in al cun modo impiegare. Continuava a piovere... rivoli d’acqua sanguigna scorrevano tra le selci chiare... parevano sgorgare dall’orrenda ferita rossa aperta sul fianco del poggio, tra la fascia di ginestre e la macchia un poco più sopra. Il piede affondava nella melma rossa di ematite e nel terreno più consistente, spiccavano le orme del cinghiale riempite per buona parte d’acqua.
Alla fonte dei Canapai c’ero già stato, quando i fratelli Bagnai l’avevano liberata dalle piante nel tagliare il bosco. In seguito gli arbusti avevano ripreso il sopravvento e si poteva intuire l’esistenza della sorgente dal rigagnolo d’acqua nerastra che attraversava la macchia prima di riversarsi nel torrente. Ernesto mi aveva parlato di come i boscaioli usassero l’acqua per la polenta, durante i mesi del taglio delle piante. Quando c’ero passato per la prima volta, mi ero imbattuto in un capriolo. Non era fuggito subito ma si era soffermato a guardare cercando di capire le mie intenzioni. Soltanto una trentina di metri ci separava e se avessi voluto nuocergli in qualche modo, avrei dovuto superare la distanza volando poiché i rovi limitavano ogni movimento. A malincuore lo vidi allontanarsi leggero, senza muovere un filo d’erba, quindi inerpicarsi veloce sul “Pettorale” come se la legge di gravità per lui non esistesse. Per qualche istante mi sentii “albero”, gravato da un forte peso con le membra estie ad ogni sollecitazione, incantato dalle movenze di quella creatura scomparsa nel fitto del bosco come per magia. Non so perché pensai agli aquiloni, a come si dondolavano in cielo e per alcuni minuti me ne rimase dentro la sensazione pur non trovando il nesso logico fra le due cose. Qualche tempo dopo rifeci la strada all’inverso assieme ad uno dei fratelli Bagnai; ci separammo proprio lì e men- tre io riprendevo la via per l’Olivello lui affrontò il Pettorale per tornare indietro. Mi risovvenne il ricordo del capriolo ma ogni possibile confronto con quella creatura, sul me- desimo tracciato, m’apparve del tutto impossibile.
A metà piaggia il terreno spiana e si allarga. Le querce e i lecci attorno creano una specie di anfi- teatro naturale. Se a qualcuno viene voglia di curiosare s’accorge come dietro alla barriera di verde il terreno precipiti ripido col terriccio a malapena trattenuto dai cespugli di erica e ginepro. Il declivio invita a scivolarvi su, pur sapendo di arrivare seduti nel piazzale sottostante con le tasche piene di terra e foglie. In fondo il bosco è pulito ed una poderosa discarica arriva fino ai bordi del fosso... Su questo piazzale si aprivano le gallerie superiori della vecchia miniera di rame ed i cumuli in disfacimento di minerale rugginoso sono quanto resta del materiale abbandonato al momento della chiusura. Il silenzio pressoché assoluto accentua il senso di solitudine per chi vi s’intrattiene a lungo, e l’impressione di sentirsi chi udere addosso il bosco si fa più forte col trascorrere dei minuti. La luce riflessa dalla discarica fa scompar ire i varchi tra le piante e negli occhi persiste solo la gran macchia di verde ormai dilatatasi a dismisura. Lo scoprire un passaggio al limite sud dello spiazzo, solleva il morale sollecitando a muoversi. Alla fine del sentiero, sul limite dello strapiombo, si apre la frana che si esaurisce nel fosso degli Alteti. Poco più a valle resta l’unico ingresso della miniera ancora aperto, dal quale fluisce acqua giallastra nel fosso attraverso la coltre di equiseti e ciuffi di vin- co. Dopo tanti anni di abbandono, fa mostra di se il “quadro” di pino che armava l’ingresso della galleria in un’atmosfera ”d’altri tempi” dando l’impressione che dal buio del tunnel appaiano all’improvviso i minatori ormai al termine del turno di lavoro. Attorno ancora silenzio tranne lo sgocciolio dell’acqua nel fosso e, di tratto in tratto, il grido della ghiandaia.
Nella parte più brulla della cessa c’è un albero. Le piogge ne hanno scoperto le radici facendolo assomigliare all’immagine riflessa in un laghetto tanto assomigliano alla sua chioma. Oggi è divenuto un riferimento importante e seppure il picchi o ha scavato un rifugio nel tronco e il tasso si è fatto strada fra le radici, esso riesce a vivere ancora. Non riesco a immaginarmi la cessa priva della sua presenza. Ai miei occhi non è più un albero, ma un’entità inscindibile dal paesaggio. Dovrebbe trattarsi di una sughera, ma si stenta a riconoscerla co me tale poiché il tempo e le creature del bosco ne hanno modificato l’aspetto facendolo apparire come una presenza aliena messa apposta in quel punto a simboleggiare qualcosa d’importante. Forse nacque quando ancora la strada tagliava in due il bosco andandosi a collegare con quella di S. Giusto e, magari, a metà piaggia si udivano i canti gregoriani dei frati di Montespecchio a conforto del viandante ritardatario dandogli l’impressione di sentirsi meno solo. Anche a me è accaduto di soffermarmi nell’illusione di udire il suono dell’organo uscire dalla macchia per aiutarmi a raggiungere più agevolmente la cima. Se qualche volta è accaduto davvero, mi sono poi convinto che la musica scaturiva dal profondo della mente nell’attraversare un luogo orrido e magico nel contempo ove le presenze inquiete di spiriti del passato non si sono ancora decise a dissolversi e ad abbandonarlo in maniera definitiva. La cessa di Monte Moro, sovrapposta ad una strada che non c’è più, con la sua cruda bellezza apre gli orizzonti della mente al viandante attento, trasportandolo in un mondo senza tempo ove ogni emozione può divenire r ealtà e dove è ancora possibile poter sognare, ogni volta, ad occhi aperti.