Il Muratore
Alcuni giorni or sono parlando con un lettore del nostro quaderno trimestrale, ho dovuto rispondere ad una domanda rivoltami in modo garbato ma che nella sostanza mi chiedeva per quanto tempo ancora avessi l’intenzione di continuare ad andare avanti con questa rubrica. Li per lì ci sono rimasto quasi male perché mi è parso di riscontrare nella inflessione della sua voce una specie di rimprovero nel voler insistere all’infinito a coltivare un argomento del quale se n’era già trattato abbastanza. Accortosi del mio disappunto l’interlocutore si è affrettato a chiarire il proprio pensiero rammaricandosi che fosse stato, in qualche modo travisato e scusandosi per non essere stato abbastanza accorto. Ad ogni modo il messaggio, se la mia impressione era stata giusta, aveva raggiunto lo scopo e, a pensarci bene, non potevo nemmeno dargli torto. Mia madre ripeteva sempre che “le cose lunghe rischiano di diventare serpi” vanificando spesso quel poco di buono che, invece possono avere apportato. In effetti è dall’agosto del 2005 che la rubrica continua ad andare avanti e se volessi seguirla ancora non so proprio quando potrebbe avere fine. Con l’avvento di nuove tecniche costruttive l’arte muraria di un tempo si sta trasformando per acquisire un volto nuovo in linea con i tempi, con le nuove norme e, principalmente con le leggi del mercato. Conviene allora accantonare le esperienze passate che sono ancora sotto i nostri occhi, cestinando tecniche non più praticabili in termini di capacità e di costi? Qualcuno direbbe di si, magari pianificando di nuovo un ambiente a misura del nostro tempo ma le esperienze giunte fino a noi non meriterebbero proprio di fare questa fine. E allora? Allora niente! Diciamo invece di dare un taglio alla serie con la promessa di rientrare in argomento dopo averne trattati altri. Ad ogni buon conto non vorrei abbandonare le cose così e nemmeno coloro che per seguire l’ultimo argomento si trovano tuttora sugli abbaini di quel tetto laddove ci siamo lasciati nella puntata precedente. Infatti avevamo esaminati assieme questi manufatti indispensabili attraverso i quali era possibile salire sul tetto per controllare periodicamente lo stato della copertura e procedere, se del caso, alla sua riparazione. Abbiamo visto che nei paesi nordici, laddove i tetti assumono pendenze inimmaginabili per la nostra latitudine, si può accedervi passando direttamente dalle finestre della mansarda e quindi non c’è bisogno di ricorrere a strutture predisposte ad hoc ma piuttosto, in alcuni casi, ad altri sistemi che adottati per certe funzioni possano servire anche per altre. Mi riferisco alle cosiddette “luci” ovvero ad aperture sul tetto capaci di illuminare il locale sottostante e nel contempo per servire all’occorrenza da passaggio per accedervi. Si tratta di strutture che possono essere fisse o mobili, di solito costituite da telai metallici sormontati da vetri, apribili e non e, addirittura schermate con appositi pannelli o tendaggi per attutire le forti luci estive (Fig. 1).
Possono assumere funzioni tecniche o decorative a seconda ove vengono istallate e conferire prestigio in certi ambienti, quali musei o luoghi di rappresentanza. Spesso nei vecchi palazzi Liberty si illumina il vano scala attenuando la luce diurna con vetri colorati, o nei musei, come il Solomon Guggenheim di New York sovrastando la sua galleria a spirale (Fig. 2).
Fig. 2. La cupola della galleria del Solomon Guggenheim di New York. |
Ma restando nella nostra dimensione le aperture alle quali facevamo cenno si trovavano in prevalenza nei vani scala, nelle soffitte oppure anche in qualche mansarda. Di solito aperture del genere risultano molto vulnerabili dal punto di vista della sicurezza e la loro adozione avviene di preferenza nei tetti isolati di singole proprietà e quindi non accessibili a tutti. Il lucernario di un tempo che sovrastava il vano scala dove si richiedeva grande luminosità, era costituito da un telaio metallico che supportava lastre di vetro stampato di adeguato spessore, “a righe” e inclinato per lo smaltimento dell’acqua piovana in una conversa. L’accesso a tale manufatto avveniva di preferenza dal tetto e, per riparazioni più importanti, direttamente dal vano scala per mezzo di un ponteggio. Le variazioni sull’aspetto della struttura del lucernario erano in funzione del luogo ove questi veniva posizionato e delle protezioni verso piccoli animali o cose che avrebbero potuto arrecargli danno. Oltre alla luce doveva essere garantita l’aerazione del sottostante locale in modo che non vi ristagnassero cattivi odori né che vi si accumulasse eccessivo calore durante il periodo estivo. Di solito il lucernario si elevava rispetto la quota del tetto in modo che la porzione di muratura costituisse di per se stessa una barriera naturale per roditori e uccelli intenzionati ad entrare all’interno della casa. Quando il lucernario assumeva grandi dimensioni occorreva mettere in atto alcuni accorgimenti affinché non divenisse un pericolo per l’incolumità di chi transitava al di sotto di esso. Le lastre di vetro, o altro materiale trasparente, che costituivano la copertura, dovevano essere protette dall’azione del vento le cui raffiche avrebbero potuto strapparle via dal telaio al quale erano ancorate e trascinate lontano con inimmaginabili conseguenze. Da qui la consuetudine di “zavorrare” le lastre con pietre per contrastare l’azione del vento ma aggiungendo con tale sistema un pericolo in più qualora una di queste pietre rotolando, non provocasse la rottura della lastra. Ecco allora ricorrere a vetri di sicurezza inseriti in appositi telai come una normale finestra, oppure a lastre di policarbonato infrangibile ma col difetto d’invecchiare presto sotto l’azione costante degli agenti atmosferici perdendo così buona parte della loro trasparenza. Se l’orditura del tetto non consentiva di creare attorno al lucernario una protezione che lo ponesse al riparo dall’azione del vento, si ricorreva a strutture rialzate metalliche di forma poliedrica simili a cupole in miniatura che risolvendo il problema statico del manufatto ne miglioravano anche l’aspetto.
La prova di quanto appena detto è alla portata di tutti; basta salire sulla torre del Mangia in un giorno chiaro e volgere lo sguardo sulla città al disotto di noi. Sui tetti si trovano strutture di ogni tipo: aperture per accedervi, coperture di terrazze, cupole in miniatura e finestre per tutti i gusti, e ognuna di queste studiata e realizzata per affrontare situazioni più diverse al punto da far riflettere sulla ingegnosità di coloro che erano stati chiamati a eseguirle. Questo mi fa tornare in mente una frase che mio padre diceva spesso: “Ricordati che a questo mondo non esistono problemi ma solo soluzioni”. Non so dove l’avesse pescata perché a scuola non c’era mai stato, ma quanto di vero in tutto questo!
E con tale ricordo mandiamo un po’ a riposo questa rubrica confidando di poterla riprendere presto. Arrivederci al prossimo numero con argomenti che, spero, incontreranno lo stesso interesse riservato al “il Muratore”.