MurloCultura 2014 - Nr. 1

La Semaia

di Luciano Scali

MESTIERI DI UNA VOLTA

 

Si tratta di una parola ormai in disuso, di quelle che anche il computer sottolinea come errore invitando a ricercare un sinonimo che riesca a farla apparire più comprensibile. Eppure sulle persone della mia età non suscita alcuna meraviglia, anzi diviene una specie di password capace di riportare indietro al tempo in cui si poteva dare avvio ad una piccola iniziativa commerciale con la quale riuscire a “sbarcare il lunario”.
Di solito era una donna di poche pretese e piuttosto in là con gli anni a praticarla e avere la pazienza giusta per tirarla avanti. Si trattava di un “commercio itinerante”, da praticarsi a piedi senza alcun mezzo di locomozione dove tutta l’attrezzatura si limitava ad un cesto dalla foggia fantastica ma estremamente razionale, a un seggiolino pieghevole fatto in casa accompagnati da un ombrello d’incerato verde da portare a tracolla. Il cesto (Fig. 1), era fatto di vimini intrecciati e presentava, oltre al manico per imbracciarlo anche un supporto per appoggiarlo in terra, il che consentiva alla donna di poter servire il cliente standosene seduta sul suo sgabello.

Il paniere della Semaia

Fig. 1. Il paniere della semaia.

La foggia del paniere, simile a quello per cogliere le ciliegie ma di dimensioni maggiori, presentava ai lati del manico due coperchi anch’essi di vimini che si chiudevano sulla merce durante il trasporto ma che restavano aperti per metterla in mostra. Il campionario era abbastanza variato e presentava agli occhi attoniti di noi ragazzi autentiche prelibatezze. Da un lato stava la roba salata, dall’altro quella dolce. La prima parte annoverava i semi di zucca salati, le noccioline americane tostate ma ancora in guscio, i lupini lessi e le castagne secche; l’altra parte invece esponeva i duri di vari sapori, i bastoncini di zucchero, le mentine tonde anch’esse di zucchero aromatizzate oltre che alla menta, in vari gusti, le pasticche d’orzo, il “regolizio” e, talvolta, il croccante..
Quel contenitore era un autentico “cesto delle meraviglie” che faceva strabuzzare i nostri occhi dal desiderio: Siccome a quel tempo era proibito lagnarsi, cercavamo di capire le intenzioni del babbo e di accontentarci anche delle sole mentine o dei semi di zucca che venivano regolarmente mangiati assieme a tutto il guscio perché non era facile poterli sbucciare.
Il croccante rappresentava da sempre un sogno proibito, probabilmente a causa del suo costo, anche se i nostri genitori imputavano il mancato acquisto alla certezza che l’alto contenuto di zucchero caramellato “facesse bacare i denti!”.
L’attrezzatura minuta si componeva di un curioso oggetto di ottone formato da due bicchierini tronco conici di differente misura uniti per la loro base minore (Fig. 2).

Misurino per semi Misurino per semi Pinze per duri e croccanti

Fig. 2. Gli attrezzi del mestiere.


A seconda del prezzo pagato si poteva avere una maggiore o minore quantità di merce che veniva servita in involucri conici di “carta gialla” fabbricati sul posto dalla stessa Semaia durante i periodi in attesa del cliente (Fig. 2). Anche i duri di menta o d’altro gusto venivano serviti nei coni di carta gialla mentre per il croccante si faceva ricorso a quella oleata più “chic” dove il caramello difficilmente s’attaccava. La merce veniva trattata in maniera diversa a seconda del tipo: Per i semi e le noccioline da doversi sbucciare, si usavano le mani, per le castagne secche, i lupini, le mentine e le pasticche d’orzo un normale cucchiaio da minestra mentre per i duri, e il croccante un paio di pinze da dolci. Questo diverso e appropriato approccio con la merce non mancava di essere costantemente sottolineato dalla Semaia che, nella sua innocente semplicità, si vantava del grado igienico con il quale la conservava e somministrava. Questa donna la si poteva incontrare la domenica e per le Feste comandate, in piazza del Campo, sui bastioni di Fortezza, al passeggio della Lizza e nei rioni durante le feste del Patrono. Era facile riuscire a localizzarla, sempre attorniata com’era dai ragazzi ai quali spesso si rivolgeva risentita accusandoli di disturbare il suo lavoro che, tutto sommato, le fruttava solo pochi spiccioli ovvero quanto le consentiva di tirare avanti.
Un mestiere scomparso, fatto di niente e praticato con dignità anche se, talvolta, veniva osteggiato dalle guardie municipali che di solito chiudevano un occhio ma che non potevano far finta di niente se qualche “ben pensante” ravvisava nella donnetta dimessa un fastidioso elemento di disturbo durante la sua passeggiata.
Ogni volta che mi torna alla mente, rivedo ben nitido il personaggio della Semaia inserito nel contesto antico dei miei ricordi che nulla ha a che vedere con quanto appare oggi durante i sempre più rari viaggi a Siena; e se non posso esimermi da provare una punta di commozione a tal pensiero, mi consola invece l’idea di potermelo ancora permettere.
A questo punto ritengo che non sarebbe male aggiungere qualche notizia supplementare su alcune leccornie presenti nel “paniere” della Semaia, e pertanto vorrei fare accenno “alla cottura dello zucchero” visto che buona parte di quei prodotti ne erano composti in prevalenza. Dal trattamento dello zucchero si ottenevano diversi dolci finiti. Tra questi i menzionati “Duri” dei quali il più noto era quello di menta. La sua notorietà non derivava solo dallo zucchero e dall’essenza con la quale era intriso e che lo faceva preferire agli altri, ma soprattutto dal fatto che era consuetudine chiamare qualcuno di corto comprendonio proprio con l’appellativo “Duro di Menta!” Ma a parte questo modo di dire: come si faceva a fabbricare il duro? Oggi se qualcuno vedesse all’opera il “poro Vannini” nel prepararlo chissà come si scandalizzerebbe, ma ai miei tempi sembrava autentica magia! Il duro era fatto di zucchero e un po’ d’acqua riscaldati in un contenitore di rame non stagnato. Lo zucchero, a detta di chi sapeva usarlo, si “poteva cuocere” a palla, a filo e a caramello, ottenendone tre distinti prodotti ancora oggi in uso in pasticceria. Si dice che lo zucchero è cotto a palla quando, dopo avere assunta una consistenza plastica, se ne può fare una pallina facendolo muovere tra il pollice e l’indice: questo prodotto bianco, naturale, aromatizzato ed anche colorato viene usato per glassare dolci e bigné. Continuando a cuocere, lo zucchero passa da un aspetto plastico ad uno filante e la prova che abbia assunta tale caratteristica si può fare, con dovuta precauzione per non scottarsi, prendendo sempre tra il pollice e l’indice un po’ dello zucchero riscaldato e, nel divaricare le dita, osservare se è divenuto filante. In caso affermativo si può procedere a preparare i duri oppure i bastoncini di zucchero con un procedimento ed un’attrezzatura semplicissima che vi racconterò la prossima volta. Se la cottura dello zucchero continua ci si accorge che comincia ad assumere un leggero colore mielato e ad emanare un profumo piacevole tendente però a divenire di bruciato se la temperatura continua ad aumentare. Tra il colore mielato e il marroncino la consistenza della massa diviene fluida fino ad essere consistente, quasi vetrosa raffreddandosi. E’ il cosiddetto caramello, con il quale si possono ottenere i croccanti di vario tipo, le caramelle ed anche un colorante naturale di cui è consigliato l’impiego. Semplice no?
Occorre però molta pratica e colpo d’occhio nel riuscire a riconoscere i vari stadi di cottura nei quali lo zucchero si trova per ottenerne poi i prodotti desiderati. Oggi non ci sono più le mani del Vannini a preparare queste cose ma apparecchiature ad hoc capaci di coniugare le esigenze di mercato, di igiene e quant’altro il progresso prescrive. Effettivamente i sapori di allora erano diversi, ma forse dipendeva dal fatto che si gustavano di rado e come tutte le cose rare divenivano desiderabili proprio perché più difficili da ottenere.

 

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