Le giunte sul traliccio del Cerrone
SEGNI DELL'UOMO
(sesta puntata)
A chi si aggira per la prima volta nel territorio di Murlo in cerca di scoperte, non sarà sfuggita la vista di una freccia indicatrice con sopra scritto: "Miniera", oppure "Le Miniere" a seconda dell'umore del grafico che l'ha realizzata. Ebbene: nessun errore in ambo i casi perché nel posto indicato dalla freccia, di miniere e cave ce ne sono più di una e tutte di una certa importanza. Ad ogni buon conto il plurale Miniere dovrebbe riferirsi a tutto il comprensorio anche se questo nome oggi sta a indicare un villaggio dove di minerario c'è rimasto solo il ricordo. Gli abitanti però vanno giustamente orgogliosi della storia di questa frazione, sapendola intimamente legata all'evoluzione dell'intero territorio di Murlo e di buona parte di quelli limitrofi. Una storia purtroppo in via di dissolvimento per la scomparsa di gran parte dei depositari delle ultime memorie, e soprattutto delle ricorrenti disavventure nelle quali incorse la travagliata odissea di questa straordinaria comunità. Da sempre sotto il potere del Vescovo di Siena e spesso coinvolta in guai non certo dipendenti dalla propria volontà, ebbe con la miniera l'occasione attesa da secoli per affrancarsi da una condizione di immobilità assoluta. La miniera rappresentò una cesura col passato, l'opportunità di apprendere altre arti, mutare un aspetto cristallizzatosi nei secoli e di avviarsi così a pieno titolo in un'era di progresso mai immaginata prima. L'intento di questo breve articolo vorrebbe focalizzare l'attenzione sull'interessante sviluppo che ebbe questo angolo selvaggio conosciuto fin dai tempi più remoti col nome di "Bosco della Mensa" o con quello più inquietante delle "Macchie di Murlo". C'erano due soli luoghi abitati attorno all'attuale villaggio circa centocinquant'anni fa e, guarda caso, ambedue mulini: il Mulinaccio, oggi Casaccia, e il Mulino di Giorgio. Solo cinque anni dopo lungo il torrente Crevole era sorto un intero villaggio, giusto dal lato opposto della via da Murlo per Resi, assieme ad una delle prime strade ferrate private italiane, lunga 23 km e costruita dalla Società mineraria per poter commercializzare i propri prodotti. La lignite veniva estratta da cave a cielo aperto e dal sottosuolo ma, data la natura del luogo, l'inclinazione del giacimento faceva intuire che la maggior parte del carbone dovesse trovarsi in profondità e quindi da doversi estrarre attraverso la perforazione di un pozzo e con l'ausilio di gallerie che ne seguissero l'andamento. Così avvenne infatti e nella successione dei tempi l'aspetto esterno subì variazioni e aggiornamenti che, partendo da una struttura muraria, giunse al traliccio in ferro che ancora oggi si vede e che fa apparire quella del "Pozzo Cerrone" come una cosa mai vista nei dintorni. Simile ad un pozzo petrolifero, supporta sulla sua sommità due ruote che allorquando erano in movimento traevano dal sottosuolo uomini e carbone spedendovi ancora uomini e materiali per armare le gallerie. Fantastico vero? E tutto in mezzo alle famose macchie di Murlo, ricovero da sempre di fauna selvatica ed anche di superstizioni e paure.
Ma i segni dell'uomo? Di quelli ce ne sono a iosa, bisognerebbe essere ciechi per non vederli, a partire dalla perforazione del pozzo, a tutte le strutture gravitanti attorno, oltre al lavoro frenetico presso i cantieri sorti a margine di quest'opera che da uno studio più profondo e mirato si rivelerà come un autentico capolavoro realizzato con mezzi che farebbero sorridere i tecnici di oggigiorno. Tutto senza il supporto di energia elettrica, né l'ausilio di trivelle o ricorso ai moderni ritrovati di perforazione, fatto a mano e con una incredibile conoscenza del mestiere.
I segni ai quali mi riferisco sono quelli derivati da un evento bellico accaduto durante l'ultimo conflitto mondiale che ancora oggi si possono riscontrare andando a ficcare il naso nella macchia alla base del traliccio del pozzo.
Uno stralcio del rapporto sulla visita eseguita alla miniera di lignite in ambito del Comune di Murlo il 19-20 novembre 1945 da funzionari del Corpo Reale delle Miniere del Distretto di Grosseto, recita così:
Le truppe tedesche in ritirata operarono le seguenti distruzioni: agli impianti e al macchinario installato (mentre quello non installato era quasi tutto nascosto e salvato nei boschi vicini). Veniva danneggiato il locale della cabina elettrica e 2 trasformatori da 100 Kw erano perforati con proiettili e poi incendiati. Pure distrutti i quadri di manovra e un tratto della linea elettrica ad alta tensione.
Il castello del pozzo Cerrone minato alla base fu rovesciato. La gabbia fatta precipitare in fondo al pozzo insieme con dei vagonetti e il contrappeso. Una pompa verticale da 9 cavalli piazzata alla sommità del pozzo era pure distrutta. Nel locale delle macchine fu fatto saltare l'argano di estrazione da 30 cav. Squarciata la caldaia di una locomobile e bruciato un alternatore da 70 Kw per l'energia di riserva. Rimanevano pure distrutti gli interruttori, gli strumenti di misura e un elettro compressore su carrello da 30 cav. Tutto il locale veniva demolito dalle esplosioni. Dell'impianto di vagliatura subiva danno solo il motore da 5 cav.
Dal magazzino furono asportati attrezzi e materiali vari: nonché due automobili e un camioncino Fiat.
Da queste poche frasi risulta chiaro che l'operatività del pozzo era stata completamente messa fuori uso dalla "visita dei pionieri tedeschi", notoriamente esperti in opere di distruzione per ritardare l'avanzata delle forze alleate.
Il pozzo del Cerrone, nato nel triennio 1886-1889 con un diverso aspetto durante la direzione dell'Ing. Julius Pirchker, si presentava in origine come una solida costruzione in muratura (Fig. 1) a supporto degli organi meccanici preposti per il sollevamento della gabbia di accesso al sottosuolo.
Fig. 1. La struttura originale (1918) del Pozzo del Cerrone, prima del suo rifacimento in ferro. |
Con la successiva gestione da parte della S.A.I. Ansaldo (1917-1922) il pozzo assunse un aspetto più consono alla sua funzione, sovrastato da un traliccio metallico a supporto di due molette per la guida dei cavi collegati all'ascensore ed al suo relativo contrappeso. Alla base di questa struttura rimasta inattiva per quasi un ventennio, furono poste quattro cariche esplosive fissandole ad altrettante travi a C con funzione di gambe del traliccio mettendolo, con tal sistema, fuori uso.
Per riprendere l'attività mineraria venne fatto ricorso a soluzioni di emergenza utilizzando materiali di recupero sparsi nei vari cantieri o accantonati tra i rottami. A questi venne rivolta l'attenzione dei carpentieri e proprio tramite spezzoni messi da parte da chissà quanto tempo venne fuori la soluzione per ricollocare il traliccio "in posizione operativa".
I "segni dell'uomo" di questa puntata consistono in quattro spezzoni di profilato a C di tipo N.P.12 ancorati alla bocca del pozzo dalla quale sporgono di circa 17 centimetri, che stanno a indicare la base del traliccio originale ma non l'esatta posizione delle cariche esplosive che i pionieri tedeschi vi piazzarono (Fig. 2).
Fig. 2. Lo spezzone del traliccio originale (profilato a C di tipo NP12, cioè di larghezza 12 cm) e, riadattato su di esso, il profilato del traliccio ricostruito (a doppio T di tipo NP16, largo cioè 16 cm). |
Infatti quest'ultimi non stettero certamente a porsi il problema di disporre le cariche alla stessa altezza per facilitare il compito a chi avrebbe rimesse le cose a posto in seguito, e pertanto i risultati dal punto di vista pratico dovettero apparire diversi dopo le esplosioni. Gli operai di quel tempo, nel riattare il traliccio del pozzo, pensarono bene di ancorarsi a quegli spezzoni portandoli tutti alla stessa misura, ovvero all'altezza che garantisse la necessaria stabilità, aggiungendovi profilati di altro tipo e dimensione, ovvero doppio T di N.P. 16, adatti anche alla restante parte superiore della struttura (Fig. 3).
Fig. 3. Uno degli spezzoni di profilato NP12 appartenenti al traliccio originale, e il profilato a doppia T NP16 utilizzato per ricostruire il traliccio dopo la distruzione tedesca. La lunghezza dello spezzone indica la prossimità del punto dove i pionieri tedeschi piazzarono le cariche esplosive per mettere fuori uso il pozzo nel giugno 1944. |
Forse oggi saremmo tentati a sottovalutare una operazione del genere ritenendola di grossolana carpenteria non avendo ben chiare le implicazioni che questa comportava. La parte di struttura recuperata alla sua funzione originale, dovette essere "rimessa in linea" con un manufatto profondo circa 70 metri, facendo muovere più soggetti meccanici di forma e dimensione diversi, in spazi talmente angusti dove lo scostamento di pochi centimetri poteva causare incidenti di gravi proporzioni. Infatti durante il recupero effettuato con mezzi di fortuna delle attrezzature precipitate nel pozzo, accadde un banale incidente in cui perse la vita un incauto e sfortunato operaio. Ogni attenzione prestata durante le complesse opere di recupero, proprio nel momento in cui sembravano ormai coronate da successo, una svista per non aver valutata l'anormale lunghezza di un bullone di fissaggio della guida dell'ascensore, e la leggerezza nell'aggancio del cavo del contrappeso resero vani tutti gli sforzi fino a quel momento fatti. Ma di questo argomento e della dinamica di quanto avvenne, parleremo più diffusamente un'altra volta, aiutati dai documenti che a tale fatto si riferiscono.