La costruzione dell’eremo di Montespecchio
MONTESPECCHIO: TRA STORIA E LEGGENDA
Quando la voglia di conoscere diviene stimolo per un'appassionante ricerca
La zona boscosa che nasconde e conserva le ultime vestigia di uno dei più interessanti eremi agostiniani della Toscana ha subìto, a memoria dello scrivente, una serie di mutazioni che è difficile, se non impossibile, elencare. Ricordo perfettamente quando venni a conoscenza dell'esistenza dell'Eremo, grazie alle notizie fornitemi da Leandro Palazzesi il quale mi descrisse i ruderi di quello che chiamava Conventaccio con una dovizia di dettagli che poi, all'atto pratico, si rivelarono piuttosto dettati dalla fantasia che non da una reale più approfondita conoscenza.
Con tutta probabilità la visione ravvicinata di quei resti, in un luogo nascosto e protetto dalla macchia, dovette giocargli un singolare scherzo a giudicare dall'enfasi con cui ne parlava. Ma tutto questo ebbe il pregio di acuire a tal punto la mia curiosità fino a spingermi più volte a cercarlo, senza riuscirvi. Da quella radura coi lecci che sembrava il punto più adatto da cui partire, si apriva un insignificante sentiero che quasi subito si divideva in più rami conducendo in forre e botri dai quali, una volta entrato, era assai arduo, per un cittadino par mio, venirne fuori. Forse furono proprio queste difficoltà a indurmi a perseverare e, debbo dire, da quanto in effetti è derivato, che ne valse proprio la pena. Ma non volevo parlare dell'eremo del quale si sa ormai quanto basta per comprenderne l'importanza, ma piuttosto delle sue adiacenze che furono determinanti nel fornire i materiali per edificarlo. All'inizio fu proprio la vista del conglomerato rosa, che assieme al serpentino di Vallerano costituiva la dicromia del paramento esterno della chiesa, a mettermi in difficoltà in quanto mi trovai completamente preso dal nero verdastro della serpentinite e malgrado volgessi lo sguardo attorno non riuscivo a intravedere alcuna pietra che somigliasse al rosa. A quel tempo avevo poca dimestichezza con tali materiali e seppure le differenze morfologiche fra le due pietre fossero evidenti non riuscivo a distinguere bene una roccia sedimentaria da un'altra metamorfica. Grave vero? Ci voleva Barbara a farmelo capire ed a scovare nei paraggi, dietro indicazioni del "Gattino" (Rovaldo Silvestri), la cava di quello che il Moretti e lo Stopani chiamavano "Calcare dell'Orsa". Infatti proprio dall'argine sud-ovest del fosso delle Bucacce, tributario del Sata, nei pressi della villa dell'Orsa, ha inizio la bancata del calcare rosa che estendendosi a sud arriva ad esaurirsi verso casale della Pieve, nel circondario di Montepescini. La vicinanza della cava, la presenza di massi erratici di calcare fino al sottostante fosso e la scoperta che il terreno boscoso fosse appartenuto all'eremo di Montespecchio, come del resto buona parte dei beni attorno, fanno sorgere il ragionevole sospetto che la singolare dicromia del paramento esterno della chiesa sia stata suggerita proprio dalla disponibilità in loco di questi eccezionali materiali. La prevalenza del conglomerato rosa sul serpentino nella costruzione della chiesa, induce ad altre interessanti riflessioni, la prima delle quali va alla convenienza di avere una cava ubicata nelle vicinanze del cantiere e a monte del cantiere stesso. La seconda di notare l'assenza del conglomerato dell'Orsa nei resti visibili dei muri del convento e nelle gran copia delle macerie sparse attorno. La terza nel rilevare come la serpentinite usata nel paramento esterno della chiesa provenga dalle cave di Vallerano e non dal fosso degli Alteti o dalle frane del Piano degli Altari e di poggio Boschettino; tali materiali saranno invece usati in gran copia per l'edificazione del convento stesso e per i muri di contenimento e di confine dell'area eremitale.
Evidente quindi che l'uso della serpentinite di Vallerano sia stato limitato al solo esterno anziché ripetersi anche all'interno per evitare l'onere del trasporto a piè d'opera di un materiale proveniente da una cava piuttosto lontana. Ma le sorprese non si esauriscono qui poiché, spostandosi nei dintorni, non si evidenzia la presenza di calcare balzano per produrre la calce necessaria all'edificazione dell'intero complesso ed anche ricerche più approfondite sospinte in un più vasto raggio non hanno fornito i risultati sperati. In questo caso si è rivelata oltremodo illuminante la consultazione della Sezione X del Catasto Leopoldino poiché ha riportata la presenza di un toponimo con il quale si identifica un fosso detto, appunto, della Fornace. E' questi un modesto tributario del già menzionato fosso delle Bucacce, nei cui pressi furono costruite due fornaci per calce laddove non esiste alcuna presenza di cave di calcare. Alla delusione del momento ha fatto però seguito la constatazione della presenza, all'interno dell'alveo stesso, di un imponente deposito di grossi ciottoli calcarei di chiara provenienza fluviale, che dovettero servire in maniera egregia come materia prima in dette fornaci per preparare calce aerea soprattutto, senza l'onere di dover scavare il materiale dalla cava e ridurlo a più convenienti dimensioni per trasportarlo in loco. Come quelli già menzionati anche questi terreni risultavano appartenenti all'eremo di Montespecchio. Da non dimenticare poi la presenza in zona di ampi restoni di sabbie, ghiaie e terra refrattaria derivata dal disgregamento dei gabbri, che garantirono il fabbisogno di inerti nella preparazione della malta occorrente a edificare l'intera fabbrica. Solo i laterizi dovettero pervenire dalle fornaci ubicate nelle vicinanze del Merse e dell'Ombrone laddove le argille non facevano difetto e dove il trasporto del prodotto finito non dovette costituire un grosso problema.