Primavera
RACCONTI
La primavera avanza tingendo i prati e il bosco d'infinite variazioni di verde. Piove ormai da più di un mese con la temperatura mite a favorire la crescita delle erbe, siepi e primi fiori. Dei fiori, appunto...
dei fiori di sambuco che debordano dai muri, dalle macchie e simili a nubi verdi modificano il profilo del paesaggio, mentre il loro profumo penetrante attraversa la mente come un lampo riportando indietro, a tempi e ad atmosfere lontane.
Sul nappo composto da una miriade di minuscoli fiori andavamo a caccia di cetonie per farle volare poi attaccate al filo. Descrivevano ampi cerchi ronzando per la nostra gioia che non veniva affatto offuscata dall'idea del tormento inflitto ai malcapitati coleotteri.
Le strade erano bianche allora, piene di polvere spessa che le rare macchine ed il vento alzavano depositandola dappertutto. Le foglie di sambuco erano meno verdi di quelle attuali e soltanto dopo la pioggia potevamo renderci conto della loro tonalità originale. Anche i fiori erano diversi; se provavamo ad annusarli aspiravamo più polvere che profumo, cosicché, per una sorta d'incomprensibile reazione, li punivamo frantumandoli con la nostra inseparabile bacchetta.
Il sambuco diveniva di colpo interessante se, imbrancati con qualche ragazzo più grande di noi, invidiato possessore di un coltello a serramanico, riuscivamo a tagliare qualche ramo più grosso dell'arbusto per farne tanti pezzi dai quali avremmo ricavato altrettanti schioppi. Dovevamo lavorarci un po'su; portarli a casa, riuscire poi a trovare un tondino di ferro di misura adeguata, riscaldarlo nel fornello senza che la mamma o la zia rilevassero nell'operazione un minimo indizio di pericolosità. Poi, con cautela, cercavamo di far passare il ferro rovente all'interno del sambuco per svuotarlo della sua anima di bambagia. Se tutto andava per il verso giusto, il bastoncino diveniva un tubo di legno entro in quale introdurre lo stantuffo ovverosia la parte dinamica dello schioppo, assicurando la sua aderenza al supporto con un avvolgimento di stoppa.
Si facevano poi palline di mollica di pane o di carta masticata che venivano introdotte a forza dall'altra parte del tubo tenendole pigiate con il pollice sinistro, mentre con la mano destra facevamo in modo di creare una forte pressione con lo stantuffo muovendolo alternativamente. Quando toglievamo il pollice la pallina schizzava fuori con uno schiocco caratteristico. Il divertimento era tutto lì, o meglio: aveva il suo culmine in quell'attimo visto che sanciva il frutto di un lungo lavoro.
Lo portavamo a tracolla pavoneggiandoci, consapevoli degli sguardi d'invidia dei coetanei, il cui interesse aumentava in proporzione alle dimensioni dell'oggetto tenuto conto delle maggiori difficoltà incontrate per realizzarlo. Così era anche per il fischio semplice fatto con la canna, e ancora di più per quello a tonalità variabile, il cui suono cambiava con lo scorrere di uno stantuffo al suo interno. Quindi l'ocarina; la fionda con manico singolo o a forcella; l'arco con le frecce di stecche d'ombrello; lo zufolo di canna per suonare e lo zufolo per sparare la veccia, oppure i coni di carta, semplici o con lo spillo.
Poi un'infinità di altri oggetti frutto della nostra inesauribile fantasia come la lippa (invero poco usata), la druzzola (usata dai più grandi), il fucile funzionante con un pezzo di camera d'aria tenuta in tiro da una molletta per panni (detta chiappa naso) capace di sparare tappini o dischetti di cartone.
E le nacchere, il carro armato col rocchetto, il fiammifero e l'elastico; il motoscafo con la candela fatto correre nell'abbeveratoio della fonte al Ponte di Romana; l'aquilone; i barberi; le spennacchiere; le ventarole; le figurine e le cartucce coi diecioni per giuocare a pamela. Per non parlare dei carretti di tutti i tipi: da quelli con le pine di S. Giuseppe a quelli con i cuscinetti fino alla versione più sofisticata con la madia, il monopattino, il cerchione da bicicletta con il fil di ferro a forca per guidarlo, poi le bacchette con le coccole di cipresso e tante altre cose ancora a non finire! Mamma mia!!
Ma perché rammentare tutto questo? Adesso ripensandoci li rivedo con una nitidezza tale da poterli rifabbricare tutti, ancor meglio di allora e nel farli, forse ritornerei giovane visto che ritroverei in essi tanti avvenimenti e tanta gente ormai scomparsa.
La primavera ha riportato anche la voglia di camminare per assistere al quotidiano rinnovarsi della natura. Ho lasciato oggi la vettura all'inizio del percorso didattico della vecchia ferrovia della miniera, poi mi sono inerpicato per lo stradello scorciatoio di Poggio Boschetto ritrovandomi quasi in cima alla pettata della Costaccia prima del bivio per Resi. Veniva in giù Cesira con la cognata dirette a Vescovado a bordo della cinquecento rossa. Ci siamo fermati a parlare per un po', quindi ho proseguito imboccando la strada degli "Olivellani" sotto all'antica chiesina di S. Anna non senza ammirare la vista del villaggio delle miniere da un'angolazione insolita che induceva a sovrapporvi un aspetto del passato nel quale si riusciva a vedere un convoglio ferroviario in movimento verso la stazione di Monte Antico.
Un'impressione improvvisa e struggente evocata dalla sinuosità del torrente e dalle pareti boscose delle colline con le frane di gabbri e di diaspri.
Poi la delusione dello stradello verso il Crevole, allargato con l'ausilio di un mezzo meccanico che gli ha tolto il fascino dello scorso anno anche se la presenza dei cinghiali risulta evidente nel terreno smosso di recente.
Solo in fondo, dopo "la piazzola dei quattro stradelli", la natura ritorna ad essere come prima ed il cuore del viandante, ad allargarsi. Imboccato il sentiero per Montepertuso, non ancora toccato dal taglio del bosco, son salito agevolmente fino al "Paradiso", proprio di fronte al bivio per Pompana dirigendomi verso Quato dai ciliegi carichi di frutti, per infilarmi nella strada panoramica dirimpetto a Resi e l'Apparita.
I boscaioli stanno procedendo al taglio del bosco e all'apertura di numerose strade di servizio per smacchiare la legna là nel Fondo Bello sulle propaggini dell'Aiola.
Gran parte è già stata raccolta in cataste lunghe ed ordinate simili a difese predisposte contro un probabile attacco da parte di chissà chi... appunto... di chi? Forse adesso sto vagheggiando questa eventualità. A dire il vero gli strati di diaspro con i riflessi bruno-metallici di manganese sul colore rosso di fondo, assomigliano più ad un bastione costruito dall'uomo che alla cima dell'Aiola. Da questa altezza, dietro ad una poderosa catasta di legna, ho l'impressione di costituire l'avamposto per una resistenza ad oltranza verso quel chissà chi di cui facevo accenno prima. La vallata sotto di me, vista dal lato opposto di dove l'avevo osservata all'inizio del cammino, riprende l'aspetto di un'ora fa, con il solito treno invisibile diretto verso la Befa che rivela la sua presenza attraverso gli echi ripetuti all'infinito da un mezzo meccanico tuttora al lavoro. Dove sono dislocate le mie truppe? Mi guardo attorno compiacendomi a non scorgerle in quanto ben mimetizzate nell'ambiente riuscendo poi a ravvisarle, dopo lunga ricerca, proprio in fondo ad un angolo recondito della mente. Penso alla logistica e ad eventuali vie di fuga mentre lo sguardo si sofferma sul fosso di Quato nascosto nel folto della macchia laddove i boscaioli non sono ancora arrivati ma nei cui pressi hanno ammucchiato i tronchi più grossi.
Se dovesse piovere forte, l'acqua glieli porterà via di certo! mi dico; poi rivedo il tunnel sotto la piattaforma ferroviaria e le lesioni delle pareti provocate da più di mezzo secolo di piene, promettendomi di ripristinare il tutto a vittoria conseguita.
L'orizzonte è terso, solo alcune piccole nubi tondeggianti e nere, stanno sospese sopra il profilo di Monte Ambrogio e dei Sughereti. "Questi treni a lignite inquinano troppo, dovremo escogitare una soluzione per porvi rimedio appena avremo vinto!".
Proprio così, ma per vincere occorrono armi, o meglio: le idee e, purtroppo quelle fanno difetto anche se sempre più spesso si confondono con la fantasia, poiché basta uno sguardo incantato o una parola a dare avvio ad una storia incredibile e senza fine. Lascio la catasta in cima al poggio dietro la quale mi proteggevo e scendo di corsa verso il fosso. So di non poterne seguire l'andamento perché la macchia me lo impedirà, ma so anche dell'esistenza di un antico viottolo capace di portarmi dritto, dritto fra i gabbri del ponte di Miro. Da lì alla macchina il percorso è breve ed il nemico latitante, cosicché in pochi minuti arrivo a mettermi al sicuro ed a togliermi gli occhiali appannati dal sudore, mentre di nuovo incrocio Cesira di ritorno verso casa.