Ricordo chiaramente quella mattina quando, ormai
deciso a fare una operazione programmata da tempo presso la Miniera,
arrivato laddove si trovavano i ruderi del capannone degli argani, vidi
un cumulo di detriti al posto del muro verso la collina. Ebbi un colpo al cuore
assieme al rammarico di non aver effettuato il rilievo dei basamenti
dei motori ormai sepolti sotto le macerie.
Fotografai
quanto restava soffermandomi addirittura su dettagli ancora visibili ma
apparentemente senza senso, con la speranza di potervi rilevare in
seguito la ragione della loro esistenza.
Sulle mura
ancora in piedi ma prive d’intonaco, si aprivano tracce profonde
attraverso i filari di mattoni: quali verticali, quali oblique che
lasciavano immaginare un’originale trama di cavi elettrici ormai
totalmente scomparsi. Mi sembrò di radiografare
un essere inanimato giunto al limite delle sua identità ma ancora pieno
di desiderio di rivelarsi. Poi, nella
porzione di parete tra l’ingresso e l’ampia finestra, all’altezza delle
loro piattabande , un chiodo rugginoso infisso nel muro attirò la mia
attenzione. D’istinto lo fotografai. Solo in seguito
scoprii il nesso fra quell’oggetto superstite e voci di fatti lontani
raccolte attorno, che sembravano avere avuto inizio proprio da lì.
Ebbi così
l’impressione curiosa di vedervi attaccato il lungo filo di avvenimenti
svoltisi tanto tempo fa, dipanato dalle Moire fino alla sua naturale
conclusione secondo le decisioni del fato.
Il
chiodo
L’addetto alla
manovra dell’argano del pozzo Cerrone gettò ancora una volta il suo
sguardo rassegnato all’orologio appeso accanto alla porta d’ingresso
domandandosi se il tempo si fosse fermato. Non passava mai
quella mattina, anche se lo scandire dei secondi lo contraddiceva rimarcandone il
regolare trascorrere.
Non tutti i
giorni sono uguali e così pure i pensieri nella testa. Talvolta ti
senti libero come se nessun legame ti unisse alle persone e alle cose,
altre volte invece non riesci a districartene... così... apparentemente
senza alcun motivo. Di contrarietà
ce n’erano a non finire ed anche di preoccupazioni.
La guerra stava
andando male e gli alleati risalivano lentamente l’Italia mentre i
tedeschi in ritirata apparivano sempre più nervosi e pressanti. Le ispezioni
erano divenute più frequenti lasciando supporre la partenza dei
tedeschi entro tempi piuttosto brevi. Malgrado non si
ricordassero contrasti seri con le autorità di occupazione, nessuno se
la sentiva di azzardare previsioni sui comportamenti delle truppe al
momento della partenza. Di certo non se
ne sarebbero andati salutando e ringraziando per l’ospitalità, e in
previsione di questo, molti impianti erano stati nascosti in fondo alle
gallerie per usarli di nuovo quando sarebbero ripresi i lavori.
All’improvviso
la porta d’ingresso si spalancò con violenza e quattro o cinque soldati
abbigliati in maniera mai vista entrarono con le armi spianate. Facevano paura
a vedersi, nelle loro tute mimetiche, carichi di munizioni e bombe a
mano. Si trattava di
un gruppo di guastatori, gente specializzata in distruzioni
sistematiche di impianti e strutture d’ogni genere, incaricati di
contrastare il più possibile l’avanzata del nemico.
Uno di questi,
dopo essersi accertato dell’inesistenza di armi nell’officina si
avvicinò all’operaio intimandogli di far discendere la gabbia
dell’ascensore e quindi di togliere corrente dall’impianto e dalle
gallerie.
“Ma ci sono
ancora gli operai la sotto!” disse... "bisogna farli risalire!”
“Non c’è
tempo!” gli fu risposto.
Provò a
ribattere ancora ma la pistola appoggiata alla sua fronte lo dissuase
ad insistere. Azionò argano e freno per far discendere la
gabbia con lentezza attivando ripetute volte un segnale luminoso di
emergenza nel sottosuolo per far capire ai compagni di risalire al più
presto con i propri mezzi attraverso le uscite di soccorso.
Nel frattempo i
guastatori, dopo aver legato l’esplosivo al traliccio cominciarono a
far precipitare i carrelli nel pozzo per rendere più difficile il
recupero della sua futura operatività.
Tutto venne
eseguito rapidamente, e prima d’essere trascinato fuori ebbe modo di
dare un’occhiata all’orologio e dire a se stesso: “Non passa proprio
mai il tempo stamattina!”
Alcuni minatori
giunti in superficie, dal bosco ove rimanevano nascosti, ebbero modo di
vederlo salire spinto dai soldati, sul camion della miniera carico di
roba trafugata, mentre il traliccio si ripiegava su se stesso dopo
l’esplosione delle cariche di dinamite.
......................................................................
Arrivarono gli
alleati e la miniera si animò di nuovo. Tutti collaboravano con altro
spirito profondendo le migliori energie sorretti dalla speranza di
poter finalmente lavorare in pace per un futuro pieno di promesse.
Nessuno pensava
più all’operaio dell’argano portato chissà dove dai soldati in ritirata. Se lo videro
comparire un giorno in cantiere, più magro del solito, e tutti gli
fecero gran festa. Narrò della sua
fuga dal treno diretto al nord grazie alla inaspettata complicità di
uno dei suoi sequestratori. Gli aveva
stretto forte con la mano la spalla mentre gli faceva cenno di
allontanarsi in fretta. Non ci aveva
pensato su due volte... era schizzato via dal vagone rotolando nella
macchia accanto alla strada ferrata. La vera paura
era venuta subito dopo, mentre stava tirando il fiato dall’emozione
cercando di far calmare i battiti del cuore, allorché un pensiero gli
attraversò il cervello: “E se mi avesse sparato mentre scappavo?” Non
lo aveva fatto e così era di nuovo in mezzo ai propri compagni di
lavoro.
Quando si
affacciò al capannone degli argani gli sembrò di essere a casa. La
prima cosa che notò fu l’orologio accanto alla porta, il solo oggetto
visibilmente intatto rispetto al caos generale all’interno
dell’officina. Lo caricò com’era abituato a fare da sempre e
questi si mise nuovamente in moto segnando un tempo nuovo, quello della
libertà e della speranza. Cominciarono i
lavori di recupero della miniera. L’acqua non più pompata dal
sottosuolo aveva allagato le gallerie e riempito il pozzo cosicché
occorsero giorni e giorni prima di cominciare a vedere i carrelli che
lo ostruivano. Iniziò lentamente il loro recupero con grandi difficoltà
mentre veniva rimesso in opera il traliccio, col supporto del quale le
operazioni si sarebbero notevolmente semplificate.
Intanto
l’arganista stava rimettendo in ordine la sua officina e, guarda caso,
i danni attorno erano più apparenti che occulti. A prima vista
sembrava tutto inutilizzabile ma per lo più si trattava di carters
schiacciati e di lamiere contorte, ma la sostanza dei motori e dei
meccanismi era piuttosto in buono stato.
La mancanza di
energia elettrica restava il problema più serio ma un po’ alla volta
tutto si sarebbe risolto.
L’orologio
viaggiava preciso scandendo tempi esatti. Gli operai venivano a
rimetterci i loro Roskoff anche perché non c’erano altri orologi
alla miniera, spariti con il passaggio del fronte. La colpa
l’avevano presa i tedeschi e i marocchini, come al solito. Due operai si
facevano vedere più spesso degli altri. Amici per la pelle viaggiavano
sempre in coppia: se cercavi uno di loro, era sufficiente domandare
dell’altro e potevi essere certo di trovarlo. Sicuro: Il Magi
e Borrana... scherzavano sempre, anche sull’orologio. Borrana diceva
all’amico:
“Lo vedi com’è
preciso? È come me...
quando fo’ un lavoro, puoi star tranquillo che nessuno ci trova
qualcosa da ridire... Sicuro! Preciso come un orologio!”
Il suo amico ce
lo prendeva in giro:
“Vorrà dire,
quando quell’orologio non ci sarà più, si verrà da te a rimettere i
nostri... però devi battere anche le ore oppure far cu- cu.”
Tutto stava
andando per il meglio. L’idea della taglia fissata al traliccio
funzionava e, dopo tanto tribolare erano riusciti ad agganciare i
contrappesi della gabbia che pian piano salivano verso la bocca del
pozzo mentre il cavo d’acciaio che vi era attaccato si ammassava in
larghe volute sul piazzale. Terminata questa fase operativa più
difficile, si poteva passare al recupero vero e proprio della
funzionalità del complesso attivando finalmente la pompa di eduzione e
gl’impianti. Anche il
magazzino degli argani era ormai quasi in ordine, mancavano soltanto
pochi giorni di lavoro ed il collegamento con il traliccio per portarlo
nelle condizioni di piena operatività.
Intento alle
proprie occupazioni l’operaio non comprese subito il motivo del grido
di chi stava alla taglia e il successivo schianto. Poi il rumore
sibilante di una frusta immane, quello del cavo trascinato dai
contrappesi che ripiombavano nel pozzo per la rottura del gancio
attaccato alla taglia. Dalla finestra vide il pozzo ingoiare il cavo
assieme a spezzoni di travi, di tavole... e infine, simile ad un
fagotto di stracci il corpo di un uomo urlante.
Poi il
silenzio... per un attimo solo però, seguito da urla, imprecazioni e
pianti.
La tragedia si
era consumata in pochi attimi... solo Borrana mancava all’appello.
Toccò a Ernesto
di andare a recuperare i pochi resti, laggiù, quasi al buio fra i
detriti, in mezzo al caos dei materiali precipitati e l’acqua che
continuava a fluire dalle gallerie e a piovere dall’alto.
Solo quando
tornò fuori si accorse che mancava qualcosa, ma non se la sentì di
tornare a cercarla, fu un altro operaio ad occuparsene. L’orrore di
quel giorno non fu più dimenticato e nemmeno lo sfortunato Borrana.
Da allora
nessuno tornò alla stanza dell’argano per sincronizzare la propria ora
con quella dell’orologio più preciso della miniera perché non venne più
ricaricato.
Quando la
miniera cessò definitivamente la propria attività e l’orologio, come le
altre cose scomparve nel nulla, segnava ancora il giorno della morte di
Borrana.
Solo il chiodo
dove era appeso rimase, forse il testimonio più tenace di una storia
ormai dimenticata da tutti.
L.S. il chiodo 27/9/2001